Per quanto tempo ancora dovremo assistere, in Italia, allo strumento inaffidabile e privo di senso delle primarie di coalizione? Il nuovo corso renziano sarà capace di liberarsi di uno degli ultimi pezzi di modernariato del centrosinistra? 

 

1. A Padova, dove a maggio si vota per eleggere il nuovo sindaco, si è prodotta in queste settimane una vicenda che bene illustra i meccanismi, i pericoli e le perversioni di una formula elettorale tutta italiana. Attori principali: il Partito Democratico, che finisce per immolarsi a favore della visibilità altrui; un candidato sindaco alle primarie di coalizione che, dopo avere perso in tale occasione, per quanto di stretta misura, non accetta il risultato e si candida comunque alle elezioni; un florilegio di terze e quarte fazioni, che conferma il rischio di balcanizzazione dello scenario politico.

In autunno, con il delinearsi dei candidati delle varie aree politiche, il Partito Democratico – che amministra Padova da dieci anni con Flavio Zanonato prima, e con Ivo Rossi poi – ha confermato la scelta di fare ricorso alle primarie di coalizione per selezionare il candidato a sindaco del centrosinistra.

Il candidato del Pd è naturaliter Rossi, sindaco reggente da quando
Zanonato venne cooptato nel governo Letta. Alle spalle un profilo di amministratore locale ben rodato, come vicesindaco e assessore alla mobilità di una città di oltre duecentomila abitanti, snodo logistico del Nordest. Un curriculum riformista quello di Rossi, che integra una solida appartenenza al Pd con una provenienza politica non tradizionale, slegata dal Pci, riconducibile semmai all’area della sinistra indipendente degli anni Ottanta. Primo tra gli sfidanti Francesco Fiore, ingegnere estraneo alla politica, con un programma disegnato su rinnovabili, eco-compatibilità, agenda digitale, scetticismo rispetto ai progetti urbanistici e immobiliari dell’amministrazione in carica.

2. A febbraio, le primarie: 7mila votanti (non molti, pur al netto di una giornata meteorologicamente non facile), Rossi vincitore con il 44%. Secondo, al 37%, Fiore. Una clausola dell’accordo di coalizione prevedeva l’inclusione di punti programmatici dei perdenti nel programma finale. Nel mese a seguire i sostenitori di Fiore lamentano la mancata assimilazione delle proprie istanze da parte di Rossi; i militanti del Pd, con forse ancor maggior ragione, ribattono che una cosa è ascoltare tutti, un’altra è la regola basica della democrazia per la quale chi vince decide. E accusano il candidato “indipendente” di portare avanti una polemica solo apparentemente politica, mentre sotto ci sarebbe il solito gioco di poltrone. Mentre tra i due campi i toni si induriscono con allegra rapidità si fa strada una percezione di fondo: dall’edilizia ospedaliera alle fonti energetiche, dalle auto a idrogeno ai progetti di espansione urbana i candidati hanno idee radicalmente differenti, non compatibili fin dall’origine. E qui sta il vizio di fondo del centrosinistra padovano ma non solo: a cosa servono le primarie di coalizione?

Comparse nel 2005 come un’eccezione italiana, inedita (al tempo fu Prodi contro Bertinotti e altri), le primarie si sono strutturate dapprima come uno strumento di investitura rituale del vincitore designato (Prodi, candidato del partito di maggioranza, l’Ulivo, raccolse allora oltre tre milioni di consensi, il 75%). La moda angloamericana delle consultazioni primarie si faceva sentire – e il centrosinistra ha il merito di essere stato finora l’unico campo in cui si sono sperimentati metodi realmente democratici di selezione della classe dirigente. Ma il paragone con le nazioni occidentali si ferma qui. Negli altri paesi – nelle democrazie anglosassoni Stati Uniti e Regno Unito, ma anche in Francia, con il Parti Socialiste – le primarie si fanno infatti dentro ai partiti, non fuori. Questo ha un senso: per il confronto sui grandi schemi di valori, sulle diverse visioni della società, c’è già una cosa che si chiama elezione, e che decide realmente il gioco. Le primarie dovrebbero servire semmai per individuare il migliore esponente all’interno di un partito che consenta a tale formazione di vincere il confronto con gli altri. Dovrebbero quindi svolgersi fra candidati che condividano già, in partenza, gran parte del programma politico, e che divergano per aspetti possibilmente non imprescindibili. Così non è, è evidente, per Francesco Fiore e Ivo Rossi.

Proprio sulla base di differenze ritenute incompatibili alle primarie del 2007 il Pd non ammise la candidatura di Marco Pannella; così come a quelle del 2009 si ricorda il niet al celebre tentativo di Beppe Grillo di “prendere la tessera”. A cosa servono, dunque, le primarie di coalizione? “Noi”, si sente spesso ripetere dalla base democratica, “abbiamo preoccupazioni più alte del semplice interesse di bottega: una selezione trasparente, favorire la maggiore partecipazione possibile, dare una chance a più candidati...”. Così il Pd, animato da nobili intenti, finisce per immolarsi sistematicamente per la visibilità di esponenti che, nel bene e nel male, sono comunque estranei alla sua area politica, e che non è detto che avrebbero goduto di altrettanta attenzione mediatica se non fossero stati coinvolti nel gioco. Per andare un po’ più in là nel tempo e nello spazio, si ricordi la vittoria a sorpresa di Nichi Vendola su Francesco Boccia nel 2005, che consacrò il primo a candidato della sinistra pugliese, aprendogli la strada del doppio mandato come presidente regionale (Vendola vinse di nuovo, molto meno a sorpresa, contro Boccia, alle primarie del 2010).

3. La foga di rincorrere la democrazia americana su un terreno in cui il sistema italiano ha le sue (legittime) differenze ha portato a equivocare persino il termine “coalizione”. Nel suo significato anglosassone, e americano in particolare, l’espressione coalition rimanda non a un assemblaggio di partiti, come avviene in Italia, poiché quello statunitense è un sistema bipartitico dove i partiti semmai competono, e non si alleano. Ma è piuttosto una coalizione di forze ideologiche, sociali, economiche, culturali. Che è cosa ben diversa. Infine, anche ammesso che dopo questa disamina si continui a ritenere quello delle primarie di coalizione uno strumento affidabile, l’Italia resta il paese dove i patti si spezzano con grande facilità, soprattutto se l’ambizione e i rivolgimenti delle situazioni motivano a sperare in nuove opportunità tattiche.

Postilla: nei Balcani delle elezioni padovane l’area che fa capo al Movimento Cinque Stelle corre per conto proprio, in competizione con tutti, anche con Fiore, al quale sottrarrà sicuramente consensi. Ma forse, a ben vedere, il “tutti per sé, nessuno per tutti” in Italia non è esattamente una notizia.