Nel febbraio scorso, ci occupavamo su queste colonne di un tanto noto quanto irrisolto malfunzionamento della macchina pubblica italiana, ovvero il notevole ritardo con cui la pubblica amministrazione provvedere a saldare i debiti nei confronti dei propri fornitori. A sette mesi di distanza, facciamo il punto della situazione su che cosa il governo è riuscito a fare per sbloccare una situazione incancrenita da ormai troppi anni.

1. Prima di tutto, s’impone una premessa: trattandosi di materia molto sensibile politicamente ed elettoralmente, per via della grande rilevanza che la questione ha per la sopravvivenza stessa di molte imprese medio-piccole del nostro Paese, e di conseguenza per il mantenimento o meno di un numero molto considerevole di posti di lavoro, esiste nella pubblicistica al riguardo molto materiale “biased”. È cioè molto facile imbattersi in analisi viziate da opposti pregiudizi, favorevoli o contrari al governo, ed è pertanto più difficile che in altri settori fare chiarezza sul reale stato dell’arte. Tentiamo di districarci tra le opposte propagande filo- e anti-governative, e di dare un quadro il più possibile accurato della situazione attuale, soffermandoci in particolare su alcuni aspetti problematici dell’azione intrapresa dal governo, incentrata sullo sconto bancario.

2. Da febbraio in avanti, le principali novità intervenute sono state in primo luogo la diretta assunzione di responsabilità personale, da parte del premier Renzi, nel pagamento di tutti i debiti pendenti della PA entro il 21 settembre prossimo, giorno di San Matteo e primo giorno d’autunno. Il Presidente del Consiglio fece pubblicamente questa promessa in una nota trasmissione televisiva, a ulteriore dimostrazione di quanto l’esecutivo percepisca l’estrema rilevanza del problema.

L’altro grande elemento di novità, che preconizzavamo nell’articolo di febbraio, è stata l’apertura a giugno di una procedura d’infrazione da parte dell’Unione Europea avente riguardo proprio il ritardo nei pagamenti da parte della PA, e in particolare, più che il problema dell’arretrato accumulato, quello della persistente cronicità del ritardo rispetto ai tempi prescritti dalla direttiva europea in materia.

3. Iniziando da questo secondo aspetto, è possibile registrare alcuni progressi, se pur ascrivibili soprattutto al piano delle buone intenzioni. In primo luogo, entro settembre il governo ha promesso di adeguare il termine ordinario previsto per legge ai trenta giorni prescritti dalla direttiva europea (in luogo dei 60 attualmente stabiliti, che diverranno soltanto eccezionali). Tale misura certamente non è di per sé risolutiva: per quanto si accorci sulla carta il termine previsto per legge, la realtà non si adegua da sola al comando normativo, come dimostra il fatto che ancora a maggio la CGIA di Mestre registrava un pagamento medio della p.a. a 170 giorni; se non altro, però, essa è indicativa di una buona volontà nel rispetto degli obblighi comunitari.

Tra le altre misure prese dal governo, le principali consistono nell’anticipazione dell’obbligo di tenuta del registro delle fatture al primo luglio e nell’introduzione dell’obbligo di fatturazione elettronica per tutte le PA a marzo 2015. Misure che potrebbero a regime innescare un circuito virtuoso. Meno convincente appare invece l’introduzione di deroghe al Patto di stabilità interno: per quanto siano possibili critiche a questo meccanismo di regolazione della finanza locale, le deroghe, anche se motivate dal lodevole intento di sanare un debito pregresso, non sono mai un bel segnale di responsabilità fiscale dato agli investitori e agli operatori in generale.

Di fatto, comunque, l’Unione Europea sembra essere stata convinta dell’efficacia di tali iniziative, e a fine agosto ha lasciato intuire che vi sono buoni spazi per la chiusura della procedura d’infrazione aperta nel giugno scorso.

4. Assai più problematica sembra invece l’altra questione, ovvero il modo in cui è stato affrontato l’arretrato di debiti mai pagati. Qui il meccanismo, peraltro già ampiamente sperimentato da altri governi del passato, è quello dello sconto bancario: dopo aver ottenuto, entro il 31 ottobre, la certificazione del credito da parte delle amministrazioni pubbliche, le imprese creditrici sono invitate a rivolgersi, per il pagamento delle proprie fatture, presso gli istituti bancari, che anticipano pro soluto le somme, con garanzia statale del loro rimborso tramite la Cassa Depositi e Prestiti, detratta una commissione (uno sconto appunto), dell’1,9% fino a 50.000 euro, e 1,6% oltre.

Ora, i problemi che si pongono sono almeno tre: in primis, un taglio di quasi il 2% dei compensi non è esattamente irrilevante per chi, come tipicamente coloro che lavorano con gli appalti pubblici, è costretto a lavorare spesso sui massimi ribassi, sul filo quindi di margini molto risicati. Peraltro, per quanto l’inflazione sia oggi bassa, essa ha già contribuito nei mesi e anni di ritardo accumulati a “scontare” il debito, per cui il sacrificio per le imprese creditrici non sembra trascurabile.

In secondo luogo, il meccanismo dello sconto accresce considerevolmente l’intreccio tra banche e pubblica amministrazione, già di per sé eccessivo. Com’è noto, un effetto della crisi è stato il “rimpatrio” di una parte consistente del nostro debito pubblico, ora detenuto in misura assai più consistente che in passato da istituti di credito nazionali. Il fatto di spingere verso un aumento dell’esposizione di questi ultimi al rischio Paese, se pur dietro generosa commissione, non pare una saggia scelta di policy, aumentando da un lato il rischio sistemico, e dall’altro lato indebolendo strategicamente il governo di fronte a creditori da cui sempre di più fa dipendere le proprie sorti.

Infine, ed è forse l’elemento più preoccupante, pare evidente che, se si è scelto di ricorrere a questo meccanismo, facendo pagare le banche, è perché di soldi veri in cassa il governo non ne ha. Sarebbe quindi molto importante capire come il governo pensa di reperirli, aspetto che sinora è stato essenzialmente eluso, ma che non può continuare ad esserlo: è infatti certamente importante per molte imprese recuperare liquidità, ma per chi abbia interesse a valutare la stabilità e l’affidabilità del sistema Paese, da cui dipende in definitiva la sopravvivenza delle imprese stesse, è parimenti importante sapere come il debito, per ora soltanto anticipato da terzi, verrà infine onorato.

5. In definitiva, un bilancio onesto sembra essere che il governo, e in particolare il premier stesso, hanno dimostrato una sensibilità alla questione superiore rispetto a quella dei loro predecessori. Tuttavia, le dimensioni dell’arretrato e il pessimo standard ereditato erano tali che le promesse del premier di rimediare integralmente al problema entro il 21 settembre sono risultate vane.

Uno sforzo per lo smaltimento del pregresso è stato fatto, ma non era realistico immaginare di risolvere in pochi mesi un problema che si era calcificato da anni, e in effetti il fatto stesso che il termine per la certificazione, primo passo per ottenere l’agognato pagamento, scada il 31 ottobre
rende implicitamente impossibile il rispetto del termine del 21 settembre per il pagamento integrale dell’arretrato.

Come detto, comunque, quel che lascia maggiormente perplessi è la scelta di procedere ancora una volta al pagamento tramite il meccanismo dello sconto. Come detto, a parte l’implicita tassa su un credito dovuto, rimane aperto il problema di quando effettivamente il debito verrà saldato ai nuovi creditori, e in che misura tale montagna di debito sia stata registrata nella contabilità nazionale.

Un’operazione molto apprezzabile del governo sarebbe dunque quella di fare chiarezza sull’argomento, e aggiungere al programma dei prossimi mille giorni, appena annunciato, l’impegno a compiere una ricognizione esaustiva di tutti i debiti pendenti, contabilizzandoli debitamente. Il primo passo verso il risanamento passa attraverso l’onestà e la trasparenza sui propri conti, per quanto ciò possa ridurre gli spazi di manovra per quelle (discutibili e di dubbia efficacia) misure di deficit-spending in funzione pro-crescita care al governo stesso.