1. L’Italia ha un anno per risolvere i problemi che affliggono il suo sistema carcerario: è la prescrizione rivolta, alla fine di maggio, dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo al nostro paese. Nel caso in questione, è stato bocciato un ricorso del governo avverso la sentenza “Torregiani e altri c. Italia”.

Con questa pronuncia dello scorso 8 gennaio, la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia a un risarcimento del danno morale quantificato in 100.000 euro. Secondo la corte, la condizione di vita degradante imposta ai sette ricorrenti (che erano stati detenuti per diversi mesi negli istituti penitenziari di Busto Arsizio e Piacenza) costituiva una palese violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea per i diritti dell’Uomo (CEDU), che recita: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o a trattamenti inumani o degradanti”. La prima condanna per questo motivo risale al luglio 2009, con la sentenza “Sulemajnovic c.Italia”. Si stima che attualmente siano più di 500 i ricorsi presentati alla Corte da parte di detenuti nelle carceri italiani.

I problemi strutturali del sistema carcerario italiano, che la Corte definisce come il “risultato di una disfunzione cronica del sistema penitenziario”, riguardano in particolare il sovraffollamento delle celle, un livello inadeguato di servizi e riscaldamento, diffusi problemi sanitari fra le persone detenute. Inoltre, la Corte di Strasburgo ha raccomandato all’Italia di dotarsi in un breve lasso di tempo “di un ricorso o di un insieme di ricorsi effettivi, idonei ad offrire un ristoro adeguato e sufficiente nei casi di sovraffollamento carcerario”.

Quanto al sovraffollamento, i numeri forniti dal Ministero della Giustizia aggiornati al 31 maggio 2013 sono emblematici: a fronte di una capienza ufficiale di 46.995 posti (che in realtà si riducono a 39.000, dato che circa 8.000 posti sono per diverse ragioni inutilizzabili), i detenuti reclusi sono quasi 66.000, sparsi in 206 istituti carcerari. Inoltre, secondo il Rapporto SPACE del Consiglio d’Europa

che prende in esame la situazione carceraria di 47 paesi, quello italiano costituisce la terza peggior situazione in Europa (dopo Grecia e Serbia) in quanto a numero di detenuti in confronto alla capienza massima (circa 140 a 100). Se si continua nella disamina, emerge un altro fattore di forte criticità: quasi il 40% dei carcerati non sono condannati definitivi (utilizzando un termine tecnico, si definiscono detenuti “giudicabili”) e di questi più di 12.000 sono addirittura ancora in attesa della sentenza di primo grado. Inoltre, 24.000 persone devono scontare meno di 3 anni di reclusione, ma, per vari ostacoli normativi, non riescono ad accedere a pene alternative quali i domiciliari.

2. Il sovraffollamento delle carceri non è solo un problema economico, che sorge nel momento in cui lo stato viene condannato al risarcimento, né di generica credibilità internazionale, pur essendo questi elementi da non sottovalutare; è innanzitutto una questione di civiltà e di rispetto della persona umana, che non cessa di essere tale in carcere, e a cui vanno garantiti diritti e dignità. Si può senza difficoltà sostenere che le condizioni degradanti e umilianti imposte alla grandissima parte dei carcerati italiani costituiscono una grave violazione dei più elementari diritti dell’uomo. Un numero è particolarmente forte per la sua durezza: ogni detenuto italiano ha in media meno di 3 metri quadrati di spazio, meno della metà di quanto richiesto, come minimo, dalla normativa comunitaria del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e dei Trattamenti inumani e degradanti (che impone di concedere almeno 7 metri quadrati per persona).

È perciò una tematica di strettissima attualità per qualsiasi paese che voglia definirsi civile, una tematica che il governo dovrebbe affrontare con cognizione di causa e celerità. Sono necessarie però alcune avvertenze preliminari. In primo luogo, il costruire altre carceri, come talvolta viene proposto, non è una soluzione che allevierebbe i problemi con rapidità (visti i tempi richiesti per i lavori), né è di facile attuazione, data la criticissima situazione dei conti pubblici italiani. In più, stando al già citato Rapporto del Consiglio d’Europa riferito all’ultimo anno per cui i dati sono disponibili, ossia al 2010, l’Italia spende per ogni detenuto più di 115 euro al giorno, contro i 96 della Francia e i 109 della Germania;  si desume con facilità che non è questione, semplicemente, di aumentare la spesa pubblica.

In secondo luogo, occorre evitare il ripetersi dei provvedimenti-tampone adottati dai governi succedutisi negli ultimi anni, provvedimenti che possono essere brevemente riepilogati.

Nel 2006, con legge 241/2006, fu concesso l’indulto (che è previsto dall’articolo 79 della Costituzione ed è disciplinato dall’articolo 174 del codice penale, e consiste in un condono, totale o parziale, della pena, ma non del reato), grazie al quale fu accordato uno sconto fino ai tre anni ai detenuti per una vasta categoria di reati: esso permise l’uscita dal carcere di più di 26.000 persone, ma, nel giro di poco più di un anno, il limite della capienza regolamentare fu nuovamente raggiunto.

Nel 2010, con l’aggravarsi della situazione all’interno degli istituti penitenziari, venne dichiarato lo stato nazionale di emergenza delle carceri e il governo Berlusconi varò il “Piano Carceri”, attuato in prima battuta tramite la legge 199/2010, per effetto della quale si permise a circa 4.000 detenuti di scontare l’ultimo anno di detenzione agli arresti domiciliari. Il Piano fu ripreso dal governo Monti, e in particolare dal guardasigilli Paola Severino, per perseguire essenzialmente due obiettivi: aumentare la permanenza agli arresti domiciliari piuttosto che in carcere, e combattere il fenomeno delle porte girevoli (la permanenza in carcere per pochi giorni). Ciò si concretizzò nel Decreto Legge 211/2011, convertito con la legge 9/2012 , detta “Svuota carceri”, che ha dovuto affrontare diversi ostacoli in Parlamento, e ha finito per coinvolgere poco più di duemila detenuti. Più nel dettaglio: fu aumentato a 18 mesi l’ultimo periodo di condanna che è possibile trascorrere ai domiciliari, e fu fatto divieto di condurre in carcere le persone arrestate per reati non gravi.

Tirando le somme, dunque,  riguardo agli interventi legislativi descritti: se da un lato hanno alleviato, almeno temporaneamente, le difficili condizioni di migliaia di persone, dall’altro non hanno affrontato in modo organico le problematiche, e si sono dimostrati inadeguati nel far calare in modo significativo e stabile i tassi di sovraffollamento.

3. Con l’insediamento del governo Letta, il neo ministro della Giustizia Cancellieri ha manifestato l’intenzione, meritoria, di intervenire in tempi rapidi sulla questione carceri; occorre dunque delineare un ventaglio di soluzioni indispensabili, non dimenticando che una riforma davvero incisiva non può limitarsi a ritocchi ma deve apportare modifiche strutturali alle normative in materia contenute sia nei codici (penale e di procedura penale) sia nelle leggi sull’ordinamento giudiziario. Un simile discorso comprende anche l’amnistia (istituto che estingue sia la pena sia il reato), invocata come possibile panacea di tutti mali: va seriamente presa in considerazione l’opportunità di concederla per deflazionare in modo significativo il numero di detenuti e permettere, in modo temporaneo, di migliorare la situazione; tuttavia, da sola, non escluderebbe il riproporsi del sovraffollamento negli anni a venire.

Si può quindi stilare un elenco di alcune riforme che sarebbe desiderabile intraprendere:

● Rendere più stringenti i criteri per valutare le tre esigenze (elencate all’articolo 274 del codice di procedura penale) che permettono l’applicazione della custodia cautelare o, servendosi di un termine più di uso comune, della carcerazione preventiva: pericolo di inquinamento della prova, pericolo di fuga, pericolo di reiterazione del reato (quest’ultimo in particolare troppo generico). La carcerazione preventiva ha subito una radicale involuzione negli anni: nata con funzioni prettamente cautelari, si è trasformata, anche a causa della possibilità per il giudice di interpretazioni eccessivamente elastiche, in uno strumento di anticipazione della pena, in piena violazione del precetto costituzionale di cui all’articolo 27, comma 2: “ L’imputato non è considerato colpevole fino alla sentenza definitiva”. Inoltre, a complicare l’analisi, la custodia cautelare è resa ancora più ingiusta, in Italia, dall’eccessiva lentezza dei processi: l’attesa per la sentenza definitiva viene il più della volte trascorsa, anche per anni, in carcere. In proposito, ci si può collegare all’opportunità di prevedere un  serio ed effettivo meccanismo di responsabilità civile del magistrato che con eccessiva leggerezza disponga una misura del genere o che prolunghi la durata del processo oltre i limiti stabiliti, ma non è questa la sede per approfondire questioni tanto complesse e delicate.

● Facilitare il ricorso a misure alternative rispetto alla pena detentiva, quali in particolare la detenzione domiciliare e la semilibertà; inoltre, per i reati a scarso allarme sociale, per i quali sorge unicamente la necessità di riparazione del danno nei confronti della persona offesa, sarebbe opportuno prevedere solo pene pecuniarie.

● Estendere ai detenuti in attesa di giudizio alcuni istituti premiali, quali, a titolo di esempio, i “permessi premio”, previsti dall’articolo 30-ter della legge sull’Ordinamento penitenziario n° 663/1986: essi consistono nella concessione al carcerato di brevi periodi di tempo da trascorrere in libertà, sulla base di alcuni presupposti (come la condotta regolare e il non essere socialmente pericolosi) e adottate le dovute cautele; tuttavia sono previsti solamente per i detenuti “definitivi”.

In ultima analisi e spostandoci su di un livello di riflessione più generale, merita un accenno l’innovativo, e condivisibile, orientamento che emerge dalla sentenza della Corte di Strasburgo: la fine dell’incondizionata supremazia della giurisdizione nazionale, e l’affermazione del principio per cui la pretesa punitiva trova un invalicabile sbarramento nel momento in cui non è garantita un’esecuzione della legalità rispettosa dei diritti fondamentali dell’uomo. Rendere concreto e valorizzare tale orientamento sembra rappresentare la maniera migliore per assicurare il pieno rispetto dei diritti dei cittadini e contrastare la pretesa statale di ergersi, sempre e comunque, al di sopra dell’individuo.