In un intervento pubblicato giovedìscorso su lUnità, lex responsabile economico del Pd ed ex viceministro delleconomia Stefano Fassina ha sostenuto che «il governo Letta èrimasto prigioniero dellinsostenibile europeismo liberista». Laccusa allUnione Europea di essere la patria del liberismo, da parte di chi liberista non è, èpiuttosto frequente: ma èrealmente giustificata?

 

1. In più di un’occasione, mi è capitato di occuparmi su queste colonne di temi legati al diritto europeo dell’economia. In particolare, in un articolo dell’ottobre scorso, mettevo in luce alcuni esempi significativi in cui l’operato delle istituzioni europee sembrava effettivamente essere andato in direzione di una apertura al mercato e alla libera concorrenza: quale che sia l’opinione che si abbia di mercato, concorrenza e “liberismo”, è innegabile che, sotto certi aspetti, la UE abbia effettivamente abbattuto barriere e favorito il consolidamento dei principi dell’economia aperta e del laissez-faire.

Da questo punto di vista, posizioni come quella di Fassina, che con tutta evidenza è dichiaratamente e onestamente avverso ai principi del libero mercato, hanno una dose di fondatezza. Tuttavia, se si allarga lo sguardo, emerge un quadro decisamente più variegato, e il tasso di liberismo sembra decisamente diminuire.

Fassina ha in mente le politiche di austerity, che condanna, essendo molto più favorevole a politiche keynesiane di aumento della spesa pubblica in deficit in funzione anticiclica. Anche di questo ci siamo già occupatici siamo già occupati, insieme a Marco Bollettino, per Agenda liberale, mettendo in luce come le misure di austerity in Europa tendessero ad essere presenti molto più nelle dichiarazioni dei politici, e soprattutto di quelli contrari come Fassina, che nella effettiva realtà dei provvedimenti dei governi.

Ma il tasso di liberismo dell’Unione Europea appare grandemente ridimensionato anche se si guardi ad una serie consistente di altre policy molto qualificanti dell’azione comunitaria, come ad esempio la Politica agricola comune, un’azione da sempre fortemente protezionista, improntata alla difesa dei produttori interni dalla libera concorrenza proveniente dall’esterno, tramite l’imposizione di pesanti dazi doganali sui prodotti agricoli.

2. Non è questa la sede per una disamina completa del grado effettivo di liberismo delle politiche dell’Ue, tuttavia un’indicazione significativa è giunta sempre nei giorni scorsi in due vicende relative ad una materia particolarmente cruciale e particolarmente cara a Fassina, il diritto del lavoro.

In un primo caso, proprio giovedì scorso la Corte di giustizia dell’Ue ha condannato l’Italia per aver escluso la categoria dei dirigenti dall’ambito di applicazione della procedura di mobilità prevista dalla legislazione in materia di cassa integrazione, mobilità e trattamenti di disoccupazione. In pratica, la normativa italiana sottrae i dirigenti alle tutele previste per tutti gli altri lavoratori nelle procedure di licenziamento collettivo, in virtù di un trattamento complessivamente di maggior favore di cui essi godono in pendenza di rapporto, nonché dell’esistenza di altre forme di protezione di cui i dirigenti comunque godono anche in caso di licenziamento.

I giudici europei, però, hanno ritenuto che questa esclusione violasse comunque il diritto europeo, che impone agli Stati membri un ravvicinamento delle rispettive procedure in materia di licenziamenti collettivi, senza prevedere possibilità di esclusione per alcune categorie di lavoratori. Applicando letteralmente queste disposizioni, quindi, la Corte ha ritenuto che l’esclusione dei dirigenti italiani dalle tutele non fosse giustificata, e che pertanto violasse il diritto europeo.

Una seconda vertenza giuslavoristica che ha visto coinvolte le istituzioni europee è quella promossa dalla Flc-Cgil e da altre sigle sindacali italiane con riferimento alla situazione dei precari della scuola. In questo caso, i sindacati italiani contestano il fatto che la legislazione italiana consenta la reiterazione senza limiti dei contratti a tempo determinato ai docenti precari, mentre l’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva europea 99/70/CE che disciplina la materia, la vieterebbe.

I procedimenti in questo momento all’attenzione della Corte di giustizia dell’Ue sono due, Mascolo contro Miur (C-22/13) e Napolitano e altri contro Miur (C-418/13), il primo promosso dal Tribunale di Napoli, il secondo dalla Corte Costituzionale, peraltro con una decisione storica: è stata la prima volta che la Consulta ha deciso di sospendere un giudizio in via incidentale davanti a sé per rinviarlo ai giudici di Lussemburgo, a testimonianza del notevole peso della questione.

Questi due procedimenti fanno il paio con diversi altri instaurati in Italia per ragioni analoghe contro ministeri, amministrazioni locali o società pubbliche come Poste Italiane, e tutti portati all’attenzione della Corte europea. Questa si deve ancora pronunciare, e nel frattempo ha presentato le proprie osservazioni, oltre ai sindacati che promuovono le cause per i singoli precari interessati, anche la Commissione Europea.

Ebbene, come aveva già fatto in Mascolo, giovedì scorso la Commissione, esprimendo il proprio parere nel caso Napolitano e altri, si è pronunciata a favore dei precari, affermando che «non sembra si possa ritenere che la legislazione italiana sul reclutamento del personale docente e Ata a termine contenga criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare, in concreto, se il rinnovo dei contratti in questione risponda effettivamente a un’esigenza reale, sia atta a raggiungere lo scopo perseguito», e che pertanto «il ricorso a contratti a termine successivi per la copertura di vacanze in organico che tale legislazione consente non può pertanto considerarsi giustificato da ragioni obiettive come previsto dalla clausola 5, punto 1, lett. a), dell’accordo quadro».

È possibile che la Corte accolga la difesa del Miur, che obietta di star procedendo a una stabilizzazione di più precari possibile, compatibilmente con le risorse finanziarie a disposizione. Ma in ogni caso, questa vicenda e quella dei dirigenti testimoniano in primo luogo di un’interferenza notevole della legislazione europea nei rapporti di lavoro interni agli Stati membri.

Ora, è naturalmente ben possibile essere contrari all’introduzione in Europa di una maggiore libertà di licenziamento, a cominciare dai dirigenti, previsa peraltro in modelli economici certamente non classificati d’abitudine tra i “turboliberisti”, come quelli scandinavi. Ma sta di fatto che la legislazione europea appare con tutta evidenza imporre un modello molto lontano da quelli che prevedano una consistente flessibilità in uscita: da un lato, impone di seguire precise procedure in caso di licenziamenti collettivi, e non permette di sottrarre alla loro applicazione neppure i dipendenti che godono del trattamento migliore come i dirigenti; dall’altro, a prescindere da quale sarà il giudizio della Corte di Giustizia sul caso concreto dei precari italiani, vieta in via generale il ricorso senza limiti a contratti a termine, spingendo così verso l’adozione di contratti a tempo indeterminato, senza però che tale rigidità in entrata sia compensata, come abbiamo appena visto, da ampi spazi di flessibilità in uscita.

3. La fotografia dell’Europa come tempio del neoliberismo appare perciò, anche da questi due soli esempi, largamente sfuocata, e appare pertanto doveroso scattarne una più fedele alla realtà, tanto più in vista del prossimo appuntamento elettorale, dove centinaia di milioni di persone saranno chiamate ad esprimere il proprio giudizio sulle politiche europee. Ben più appropriata appare dunque la descrizione dell’Ue come di un ente dalle molte facce, com’è inevitabile che sia viste le notevolissime dimensioni e l’elevato grado di complessità del processo decisionale che l’Ue ha raggiunto: alcune di queste facce sorridono al libero mercato, imponendo o comunque favorendo l’abbattimento delle barriere alla circolazione di merci, persone, servizi e capitali; altre facce, invece, per una ragione o per l’altra, continuano a controbilanciare le spinte liberiste con forti dosi di interventismo e regolamentazione. Queste seconde facce possono piacere, come dovrebbero piacere a Fassina, oppure no, ma sarebbe un pessimo servizio alla verità ignorarne l’esistenza.