1. Quando si parla di scandali sui derivati finanziari, la vulgata comune è che le banche d’affari, sempre alla ricerca di facili profitti, abbiano in qualche modo ingannato gli amministratori pubblici, facendo loro sottoscrivere contratti truffaldini che si sono rivelati essere, dopo qualche tempo, molto diversi da come erano stati presentati.

Sicuramente le banche coinvolte hanno fatto ottimi affari e probabilmente gli amministratori pubblici non erano del tutto coscienti dei rischi a cui andavano incontro. Ma la storia è tutta qui? Oppure quei contratti erano disegnati in modo da fornire esattamente ciò che chiedevano i politici, ovvero benefici spendibili subito in vista di elezioni e costi da sopportare solo in un momento successivo?
In altre parole si tratta di truffa o piuttosto di collusione tra politici opportunisti e avidi banchieri? Il caso della Grecia, venuto alla luce all’inizio del 2010 è l’esempio perfetto per capire cosa spinge un governo a far ricorso al mercato dei derivati finanziari.
2. I governi non sempre emettono bond denominati nella moneta nazionale ma spesso ricorrono a titoli denominati in valuta diversa per raggiungere più facilmente i mercati esteri e attirare nuovi investitori. Il motivo è semplice: tranquillizzare i risparmiatori stranieri che non si devono preoccupare del rischio di cambio (ovvero di essere ripagati in una valuta che nel frattempo si è deprezzata), e spuntare quindi un tasso d’interesse più favorevole.
Così aveva fatto anche la Grecia che, alla vigilia del suo ingresso nell’euro, si trovava con diversi miliardi di bond denominati in dollari e yen. Poiché le tasse, però, vengono pagate in euro, il governo di Atene aveva quindi la necessità di cautelarsi contro eventuali fluttuazioni dei cambi che avrebbero potuto far variare, anche di molto, sia l’entità del capitale che quella degli interessi da rimborsare agli investitori. La soluzione adottata, in questi casi, è di solito quella di rivolgersi a una banca d’investimento e stipulare con lei un contratto chiamato cross-currency swap.
Nei contratti derivati di questo tipo, la banca d’investimento “scambia” il bond in valuta straniera con un titolo equivalente in valuta nazionale in cui i tassi di cambio sono fissati in anticipo, secondo regole prestabilite. I termini del contratto, normalmente, sono tali per cui la banca d’investimento si sobbarca il rischio di cambio e il paese paga una commissione per il servizio. I flussi di pagamento attesi, inoltre, sono calcolati in modo da far sì che il valore commerciale del contratto sia inizialmente pari a zero.
Questo, ovviamente, nel caso in cui il derivato serva solo come assicurazione. Nella realtà, per la Grecia, non è andata esattamente così.
Il contratto che il governo di Atene stipulò con Goldman Sachs nel 2001 non utilizzava tassi di cambio reali ma altri, fittizi, che permettevano alla Grecia di ottenere dalla banca d’affari americana una riduzione del debito di circa 2,4 miliardi di euro.

3. Come ha raccontato Nick Dunbar, autore del libro “Quei diavoli di derivati,” Goldman Sachs si faceva ripagare questo “regalo” stipulando un altro contratto derivato con il governo greco, questa volta un interest rate swap, che attraverso parametri anch’essi fittizi e fuori mercato, caricava sul paese mediterraneo un debito di circa 2,8 miliardi di euro.
Poiché le regole contabili (ESA95) utilizzate dalla Commissione Europea e da Eurostat non richiedevano di tener conto dei derivati nella redazione dei conti pubblici, inizialmente il risultato netto fu quello di far sparire 2,4 miliardi di euro dal computo totale debito pubblico greco.
La Grecia fu così in grado, attraverso un trucco contabile, di mostrare all’Europa e agli investitori internazionali di aver intrapreso la strada del risanamento (nel 2003 Standard & Poor’s promuoveva il debito greco conferendogli il rating A+) mentre in realtà non solo non aveva fatto nulla in tal senso, ma al contrario aveva segretamente contratto un debito ad alta rischiosità.
Quell’interest rate swap da 2,8 miliardi, infatti, prevedeva per i primi tre anni il pagamento di un teaser rate (un tasso d’interesse molto basso concepito per “attirare” i clienti) e poi un flusso di pagamenti che dipendeva dai tassi di sconto praticati dalla Fed: più questi erano bassi più la Grecia doveva pagare. La politica espansiva della Fed costò quindi molto anche al governo di Atene tanto che nel 2005, quando incominciarono i pagamenti veri, il debito iniziale di 2,8 miliardi si era trasformato nella ben più cospicua somma di 5,1 miliardi, un incremento di più del 16% annuo!


4. Prima di gettare tutta la responsabilità della truffa su Goldman Sachs, bisogna ricordare che i derivati, come il walzer, si ballano in due (in questo caso verrebbe voglia di dire in tre, perché anche Eurostat e le sue peculiari procedure di contabilità hanno avuto il loro peso) e in questo caso è molto facile individuare i motivi che spinsero i politici greci a scegliere proprio quella tipologia di derivato.
Il governo di Atene, nel 2001, voleva la botta piena (rientrare nei parametri dell’euro) e la moglie ubriaca (evitare di ridurre la spesa pubblica o aumentare le tasse). I contratti derivati stipulati con Goldman Sachs permettevano alla Grecia proprio di raggiungere quegli obiettivi, perlomeno sino all’appuntamento olimpico ed elettorale del 2004, scaricando gli enormi costi dell’operazione su chi sarebbe “venuto dopo.”