1. Situate quasi alla stessa latitudine, ma a distanza di alcune migliaia di chilometri, Corea e Italia hanno più di un profilo in comune: dalla conformazione geografica – due penisole, appunto – alla struttura produttiva (l’industria gioca una parte rilevante), alle dimensioni della popolazione, alla contrapposizione nord-sud, che in Italia è un conflitto economico latente mentre in Corea è vera e propria divisione fra due stati su sponde ideologiche opposte.
Oggi, tuttavia, ad accomunarle è qualcosa d’altro: entrambe, per ragioni differenti, rischiano di scatenare una crisi di portata devastante, seppur di natura molto diversa. Nel caso della Corea, si tratta di una crisi militare, del rischio di un conflitto nucleare nell’area del Pacifico. Nel caso dell’Italia, si tratta di una crisi finanziaria che, se esplodesse, potrebbe trascinare con sé l’euro e con esso l’intera costruzione europea.
È questo infatti il rischio autentico e lo sfondo su cui si svolge la crisi politica italiana post-elezioni. E chi non lo vede o finge di dimenticarlo – come, a quanto pare, stanno facendo i leader politici italiani – dimostra una irresponsabilità ai limiti della follia.
Nel post del 28 febbraio, pubblicato subito dopo le elezioni, avevo scritto che la crisi si sarebbe dipanata all’interno di tre vincoli: il vincolo politico, quello istituzionale e quello finanziario. In queste cinque settimane, abbiamo visto quanto siano stringenti e quanto condizionino le scelte. Quelle, almeno, di quei davvero pochi – e fra questi in primo luogo il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano – che sono insieme consapevoli della situazione e determinati a non sottrarsi alle proprie responsabilità. È solo tenendo conto di questi tre vincoli, infatti, che le scelte compiute dal Presidente si spiegano e anzi rispondono a una logica difficilmente confutabile.
Il punto è che non siamo in tempi “normali”, bensì in tempi “emergenziali”. E però non dobbiamo dichiararlo, o almeno non troppo forte, e soprattutto non prima di aver trovato una via d’uscita. Che cosa accadrebbe, infatti, il giorno in cui i mercati finanziari decidessero che non siamo in grado di darci un governo capace di tenere sotto controllo la finanza pubblica e per conseguenza l’Italia non potesse più accedere ai mercati a costi ragionevoli? Succederebbe che ci troveremmo in condizioni “greche”, con un debito però di dimensioni tali per cui nessuno potrebbe farsene carico. E, appunto, salterebbe l’euro, e con esso l’intera Unione. Per non parlare delle conseguenze in termini di impoverimento della popolazione italiana. Peccato che questo dato di fatto, che al Presidente con ogni evidenza risulta chiarissimo, pare dimenticato nell’insania del conflitto politico italiano.
2. Ripercorriamo le tappe di queste settimane: il pre-incarico dato dal Presidente a Bersani, e le consultazioni effettuate subito dopo dal Presidente stesso, hanno certificato che, ad oggi, non c’è in Parlamento una maggioranza né per un governo politico né per un governo istituzionale o di scopo (questo è il vincolo politico).
In tempi “normali” Napolitano avrebbe potuto provare a mandare un incaricato in Parlamento a cercarsi i numeri per la fiducia. Se però – come è molto probabile e come tocca comunque al Presidente valutare – i numeri per la fiducia non si fossero trovati, sarebbero potute accadere due cose: la prima è appunto che questo passaggio avrebbe potuto funzionare da detonatore per una crisi del debito pubblico (e questo è il vincolo finanziario, vedi Moody’s sul possibile downgrade del debito italiano collegato all’esito del tentativo Bersani); la seconda è che un Presidente in scadenza avrebbe in questo modo “imposto” al parlamento neoeletto un premier a cui a quel punto sarebbe magari toccata la gestione delle elezioni anticipate.
Con questo siamo al vincolo istituzionale: il Presidente in scadenza non può sciogliere le Camere, ma d’altra parte può ragionevolmente ritenere che proprio questo fatto – l’impossibilità di minacciare il ricorso “all’arma finale” – induca i partiti a irrigidire ulteriormente le proprie posizioni; e che dunque il successore, dotato di pieni poteri, potrebbe ottenere ciò che oggi per lui è irrealizzabile. A rigore, dunque, Napolitano avrebbe potuto/dovuto dimettersi, per accelerare appunto la nomina di un nuovo capo dello stato. Con l’inconveniente, tuttavia, che le sue dimissioni avrebbero rischiato di scatenare proprio la crisi finanziaria che la formazione di un governo dovrebbe scongiurare. E con il fatto che, dovendosi convocare le Camere per l’elezione del successore a partire dal 15 aprile, le dimissioni avrebbero al più fatto una differenza di tre o quattro giorni rispetto a un calendario già definito.
Solo tenendo a mente questo quadro si spiega la scelta del Presidente di insediare due gruppi di lavoro, prontamente ribattezzati dai media “commissioni di saggi”, laddove la dichiarazione parla invece semplicemente di “personalità tra loro diverse per collocazione e per competenze”, incaricati di “formulare – su essenziali temi di carattere istituzionale e di carattere economico-sociale ed europeo – precise proposte programmatiche che possano divenire in varie forme oggetto di condivisione da parte delle forze politiche”.
La scelta innova la prassi costituzionale? Sì, senza dubbio (e d’altra parte era abbastanza evidente già subito dopo le elezioni che il percorso stretto disegnato dalla Carta per la gestione della crisi avrebbe dovuto/potuto questa volta essere allargato). La scelta tradisce lo spirito o la lettera della Costituzione? Questo non si capisce da dove si ricavi. I due gruppi di lavoro, infatti, svolgono – o dovrebbero o potrebbero svolgere – essenzialmente due funzioni.
La prima è quella di dare all’esterno, ai partner europei e ai mercati finanziari, la certezza che la crisi italiana è guidata e che si stanno facendo dei passi avanti verso una soluzione. In questo senso l’esempio olandese, non a caso citato da Napolitano già affidando il pre-incarico a Bersani, per quanto ahimè incongruo – lì furono i partiti usciti da un’elezione complicata a decidere di mettersi a tavolino e discutere delle cose da fare – funziona a meraviglia: gli olandesi tengono in Europa, anche agli occhi dei tedeschi, il ruolo di “primi della classe”, e dunque dar l’idea che stiamo facendo quello che in una situazione simile hanno fatto loro è assolutamente felice.
In secondo luogo, i gruppi di lavoro offrirebbero ai partiti, se si degnassero di prenderli sul serio, l’opportunità di riaprire, partendo dalle cose da fare, un discorso che si è arenato sui veti, sulle violenze verbali e sugli egoismi di parte. Ossia l’opportunità – forse l’ultima – di costruire un accordo che a partire dalle divergenze (molte) e dalle convergenze (tante, almeno a parole) disegni un percorso concordato per la gestione ordinata di una legislatura che non potrà che essere breve: un percorso che parta dalle esigenze del paese e dai rapporti con l’Europa, e non dall’esito imprevedibile di colpi di mano e prove di forza.
3. A quanto pare, i mercati per ora hanno preso sul serio il Presidente; resta da augurarsi che lo facciano anche le forze politiche, ma di questo purtroppo c’è da dubitare. Concludo con cinque postille.
1) È sempre più chiaro che la vera posta politica in gioco in questa fase è la scelta del nuovo Presidente della Repubblica: da lì si capirà se ci si avvia a una soluzione o alla disintegrazione del sistema.
2) Sono ovviamente sensibile al tema della rappresentanza femminile nelle istituzioni: ma per una volta trovo miope, ingeneroso e … molto maschile l’aver sollevato il tema in rapporto alla composizione dei gruppi di lavoro.
3) Con il senno del poi, appare davvero un errore non aver votato un anno fa, quando l’azione del governo Monti era ormai chiaramente esaurita, il Presidente sarebbe stato nella pienezza dei suoi poteri per la gestione della crisi e i pozzi – forse – non erano ancora del tutto avvelenati.
4) C’è un articolo della Costituzione, il n. 54, che non viene citato quasi mai. Esso afferma che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. Non per essere retorici, ma è difficile non riconoscere che il vecchio Presidente lo sta rispettando alla lettera. Non altrettanto si può dire di chi sbraita di Costituzione violata, e vorrebbe convincerci che mandare alla rovina il lavoro dei nostri padri e il futuro dei nostri figli sia ciò che lo spirito della Costituzione oggi o in qualunque altro momento abbia richiesto.
5) Fra Roma e Piongyang ci sono meno differenze di quel che si penserebbe.
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