Risposta alla recensione di Alessandro Litta Modignani.

Dal sito di Reset • 25 ottobre 2013

Ringrazio Alessandro Litta Modignani per la bella recensione al mio Liberalismo senza teoria (Rubbettino) pubblicata sul sito del Centro Einaudi di Torino. E’ una recensione pensata, non d’occasione, e quindi anche critica. Elemento, quest’ultimo, che me la fa apprezzare, rendendola stimolante per me: come ripeto spesso, il pensiero evolve più per contrasto che non per conferme. Lo stesso vale, ne sono convinto, per l’autore, che definisce appunto anch’egli “interessante” il mio libro e la “teoria” in esso esposta. Francamente, direi, dal mio punto di vista non si può voler di più da un recensore! Credo però necessario, proprio per far continuare nel modo migliore il dialogo intrapreso, che io chiarisca alcuni punti.

Cominciamo dal titolo del libro, che è anche come l’autore ha colto una proposta “teorica”. Ho molto riflettuto su di esso. Si tratta certamente di un’espressione forte, fatta per non passare inosservata, un “pugno nello stomaco” per stimolare la discussione. Ed è anche un titolo che è fatto apposta per essere frainteso: essendone stato consapevole, devo ammettere che l’ho scelto con una certa civetteria. Ma esso si fonda, a me sembra, su un elemento solido e reale, come spiego nella Premessa che precede il testo. Esso gioca infatti sul doppio significato del termine “teoria”: uno forte, che allude alla teoria nel senso metafisico o forse scientifico del termine; uno debole, che fa riferimento ad un pensiero pragmaticamente aderente alla realtà, che ha con essa un rapporto dialettico. Nel primo caso, la teoria tende a una verità stabile e incontrovertibile; nel secondo, ad una verità storicisticamente (o pragmatisticamente) atteggiata. Il titolo riecheggia poi, come pure spiego, un passo in cui Benedetto Croce auspica l’avvento di una filosofia “senza teoria”, cioè non più metafisica. Mi sono sentito autorizzato a estendere l’espressione anche al liberalismo, ove per teoria è da intendere in sostanza l’ideologia, anche in considerazione del fatto che, secondo un movimento di pensiero che è anche mio, liberalismo e filosofia in Croce tendono a un certo punto a coincidere. Si può anzi dire che essendo il “liberalismo senza teoria” null’altro che l’espressione con cui ho indicato, nella monografia che ho dedicato a Croce qualche anno fa,  la cifra che mi sembrava più rilevante del suo pensiero politico, in quest’ultimo lavoro ho voluto verificarla e integrarla confrontandomi col pensiero di altri autori. Non capisco perciò perché l’espressione suoni “quasi come una stroncatura della cultura liberale” alle orecchie di Litta Modignani? A me fa invece venire a mente proprio quella liberazione da “lacci e lacciuoli” che l’autore coglie con piglio sicuro all’inizio della sua recensione. Quindi per me è come se alla cultura liberale fosse data finalmente, tanto per dire, una gioiosa “botta di vita”. E sottolineo il lemma “Vita” che nella mia interpretazione del pensiero liberale è centrale. Tutto il contrario della “tristezza” richiamata nel titolo del pur eccellente e per molti aspetti condivisibile libro di Carlo Gambescia!. Mi chiedo allora: non è che, nel considerare il non “teorico” come qualcosa di negativo, alberghi ancora, nell’animo dell’autore come dei più, un ultimo residuo metafisico che porta a vedere nell’intellettualismo o nell’anima, cioè appunto nel “teorico”, qualcosa di gerarchicamente anteposto e superiore alle passioni e in genere a tutto ciò che attiene alla corporeità (una gerarchia che è la cifra di tutta la nostra cultura, anche di quella moderna che ha visto nascere il liberalismo, e che, a mio avviso, non si “supera” cambiando semplicemente segno al dualismo e giudicando superiori, come ha fatto certa cultura contemporanea, le nietzschiane “ragioni del corpo”. Quanto poi alla “filosofia politica”, richiamata da Litta Modignani, la mia tesi è addirittura radicale: essa, da un punto di vista essenziale (non me ne abbiano i docenti titolari dell’insegnamento!), non esiste nemmeno, sciogliendosi o nella filosofia (che può essere anche “della politica”) o nella prassi senz’altro.

Una precisazione devo poi fare sul significato da me attribuito a due termini-concetto che ne assumono di norma anche altri e diversi. Mi riferisco ai lemmi “post-moderno” e “neoliberalismo”. Con il primo di essi, io indico semplicemente un periodo storico, sia del pensiero sia della realtà, che viene dopo la modernità, che ragiona, come è noto, su enti solidi, compatti, indivisi e indivisibili (a cominciare dalla diade Soggetto-Oggetto, per intenderci). Forse avrei dovuto parlare semplicemente di età contemporanea per non generare un’equivoca sovrapposizione con quella corrente di pensiero, che meglio sarebbe dire “postmodernismo”, che è stata fatta oggetto ultimamente di dure, e non sempre sensate, critiche soprattutto in filosofia da parte del cosiddetto “nuovo realismo”. Per quanto riguarda invece il termine “neoliberalismo”, con esso io indico i protagonisti della “rinascita” italiana del pensiero liberale verificatasi soprattutto nei primi anni Novanta, usando invece il termine “neoliberismo” per quel movimento di pensiero e di azione che ha avuto una certa fortuna nel pensiero economico e nella politica degli ultimi trent’anni. Autori come Galli della Loggia e Bedeschi hanno avuto, secondo me, il torto, fra tantissimi meriti, di aver riproposto un modello di liberalismo, o un liberalismo come “modello”, che potremmo definire “protomoderno”. Ovvero, un “paleoliberlismo” comunque lontano dalla curvatura storicistica che la dottrina ha assunto dopo la “frattura epistemologica” tocquevilliana di cui l’autore della recensione opportunamente parla. L’idea sottesa, in modo anche inconscio, a questa riproposizione o “rinascita” è, sempre secondo me, quella che altra volta ho definito come “sindrome del guardaroba”: le dottrine o ide politiche come abiti pronti e a disposizione nell’armadio, già confezionati, e che uno può indossare o dismettere a seconda dell’umore o a piacimento. In questo senso, passato fuori moda l’abito marxista, è bastato a molti scovare dall’armadio e riprendere il vecchio abito liberale e indossarlo: senza adattarlo e senza forse nemmeno rispolverarlo (una sorta di “liberalismo vintage” potremmo dire). Senonché le cose non vanno così: il liberalismo non è sempre già lì a disposizione, ma è una “teoria” che deve riformularsi e rivivere ad ogni nuova occasione (non basta definirlo una volta per sempre perché esso anzi, come diceva Nicola Matteucci, vive proprio, e continuamente, “ridefinendosi”). E’ vero: a Giuseppe Bedeschi io imputo, si fa per dire, “di avere escluso dalla sua ‘Storia del pensiero liberale’ personaggi come Piero Gobetti e Norberto Bobbio, e di avere sminuito il ruolo di Benedetto Croce”. Ma è pur vero che, detta così la cosa, sembra quasi che io contesti ai “neoliberali” in genere di non aver incluso, nella loro genealogia del pensiero liberale, autori “di sinistra”. Al contrario: io contesto alla radice proprio il valore prioritario dato in questi anni alla distinzione fra liberali di destra e di sinistra, in qualche modo riproposta anche dai “neoliberali”. La distinzione principale che io individuo nell’universo liberale è fra antistoricisti e storicisti, mentre l’altra è a mio avviso inessenziale o, meglio, empirica e orientativa.


Replica di Alessandro Litta Modignani

Ringrazio Corrado Ocone per l’apprezzamento e per le belle espressioni che mi rivolge. Senza entrare nel merito di una discussione di ampia portata, mi preme di precisare poche cose.La mia critica al titolo del libro (“Liberalismo senza teoria”) è di tipo “comunicativo”, cioè di marketing e non di contenuto. Ocone stesso ammette di aver volutamente cercato un titolo provocatorio, “fatto apposta per essere frainteso”. Ecco, in questo senso credo che egli abbia commesso un errore di valutazione. Un conto è propugnare “un liberalismo non teorico”, altro è proporre un titolo che si presta a interpretazioni sbagliate. Mi spiego con un esempio. Carl Schmitt - un non liberale - sostiene che il liberalismo “non è una politica”, ma solo una “critica della politica”. Una tesi che ogni liberale dovrebbe respingere e confutare con vigore. Analogamente, leggendo il titolo del saggio di cui si parla, si potrebbe essere indotti a credere che, secondo l’autore, il liberalismo è una cultura politica inconsistente, in quanto priva di un solido impianto teorico (in questo senso “quasi una stroncatura”) – una interpretazione del tutto diversa da quella sostenuta da Ocone. Anche Carlo Gambescia, quando ho criticato il titolo del suo saggio “Liberalismo triste”, mi ha risposto con parole gentili, dicendo che già altri gli avevano mosso lo stesso rilievo. Resto convinto che in entrambi i casi, almeno in una certa misura, la mia osservazione colga nel segno.

Per quanto concerne l’altro rilievo, per così dire “filosofico”, di Ocone nei miei confronti, desidero tranquillizzarlo: non nutro alcuna propensione per le religioni, né per la metafisica, né per le ideologie in genere. Ogni dottrina statica, dogmatica, cristallizzata suscita in me un istintivo sentimento di avversione. Anche gli eccessi schematici della dialettica idealistica hegeliana non mi affascinano affatto. Sono al contrario un fautore della cultura laica, moderna, empirica e razionale, capace di continuamente rinnovarsi grazie al confronto costante con la realtà storica e fattuale. In questo senso, mi riconosco appieno nel liberalismo realistico (ma non “triste”!) proposto da Gambescia. Mi sembra – e l’ho scritto – che fra il liberalismo “non dottrinario” di Gambescia e quello “senza teoria” di Ocone vi sia una notevole consonanza: entrambi si oppongono a una certa visione idilliaca del liberalismo molto diffusa all’interno della galassia liberale, in Italia e un po’ ovunque.

Infine credo di avere segnalato correttamente – sia pure di sfuggita - i rilievi critici che Ocone rivolge a Bedeschi e Galli Della Loggia, e non mi sembra affatto di avere indotto il lettore a credere che queste critiche siano riconducibili a una contrapposizione fra liberali di destra e di sinistra.

Molte altre e importanti questioni sollevate da Corrado Ocone restano aperte e non pretendo certo di esaurirle qui. Sono lieto di avere contribuito all’apertura di questa discussione, nella quale mi auguro vorranno intervenire altri autorevoli lettori.

 

Replica di Carlo Gambescia

Non ho letto il libro di Corrado Ocone, Liberalismo senza teoria, anche se in occasione della presentazione di Liberalismo triste avevo avuto modo di confrontarmi con ciò che definirei il suo non così comune esistenzialismo liberale a sfondo storicista, nonché di manifestare tutto il mio apprezzamento per la geniale reinvenzione della categoria del vitale, recuperata, credo, dall’ultimo Croce.

Intervengo, invece, perché chiamato garbatamente in causa da Alessandro Litta Modignani, a proposito del titolo del mio libro, tra l’altro da lui recensito con grande onestà e intelligenza analitica.

In effetti, il titolo non aiuta. A parte il buddistico silenzio di alcuni pesi massimi del pensiero liberale italiano – tra l’altro già saggiamente adombrato da Corrado Ocone nella sua recensione  – ho registrato due tipi di reazioni: quella negativa, a fior di pelle, dei molti, che, neppure annusato il titolo, hanno scelto a priori di non leggerlo e perciò di scriverne; quella positiva dei pochi, come Alessandro Litta Modignani e Corrado Ocone (ma anche Nicola Vacca, Teodoro Klitsche de la Grange, Maurizio Stefanini, Guido Di Massimo, Marco Iacona e in privato, Giorgio Frabetti, in una densa email). I quali sfidando – ebbene sì – certo conformismo ridens liberale, lo hanno letto e apprezzato, mettendo nero su bianco.

So che non è elegante autocitarsi… Però in questa sede è indispensabile: per andare oltre l’estetica dei titoli e contribuire a chiarire il concetto di «liberalismo triste».

Alle pagine 127-128 ho scritto:

«Ecco, discernere le regole, o regolarità, della politica significa accettare, se ci si passa l’espressione, la regola numero uno, naturalmente inaccettabile per qualsiasi forma di moralismo pacifista o ideologico: la benevolenza non sopprime il nemico, dal momento che è il nemico stesso che può designarci come suoi nemici mortali. E questa coscienza della durezza, talvolta ferocia, del politico, proprio perché vissuta così lucidamente, senza maschere di sorta, spiega le ragioni di un liberalismo triste, segnato da un’intensa malinconia: un liberalismo triste perché pensa la politica, mai ci stancheremo ripeterlo, politicamente.

Certo, sempre di malinconia si tratta… Per alcuni, un’ affezione non certo piacevole della psiche umana. Va però precisato che la malinconia di cui qui si parla non è la malinconia-non malinconia di chi goffamente aneli, magari nell’intimo felice, ad essere triste. E neppure pensiamo alla malinconia di chi viva nel futile desiderio di approfondirla esteticamente. Per contro, la tristezza del liberale archico [che ha coscienza dell’esistenza di “regolarità” del politico, l’inserto è mio] è degna delle anime grandi e forti. Si tratta di una calma mestizia, probabilmente inseparabile da un forte desiderio di ordine, un ordine da intendere in senso agostiniano, come «disposizione di realtà disuguali e uguali, ciascuna al proprio posto», ordine che però si presuppone difficilmente raggiungibile almeno nell’ al di qua».

Devo aggiungere altro?

Ovviamente, per comprendere in quale misura il «liberalismo triste» permei certo «percorso» di pensiero da Burke a Berlin si deve leggere il libro…