1. Caratteristica comune agli intellettuali liberali italiani, in questo periodo, sembra essere quella di sbagliare i titoli dei libri. Ha cominciato Carlo Gambescia con “Liberalismo triste”, ora è la volta di Corrado Ocone con “Liberalismo senza teoria” (120 pagine, Rubbettino).

Quest’ultimo titolo suona quasi come una stroncatura della cultura liberale, invece vuole esserne un elogio: finalmente il migliore liberalismo contemporaneo si è liberato da alcune sue astratte e dogmatiche pastoie, rendendosi pragmatico, storico, aderente alla realtà e politicamente efficace. Ma sostenere che una certa filosofia politica debba liberarsi di ogni teoria… è pur sempre una teoria, potrebbe osservare maliziosamente qualcuno. Un concetto che si morde la coda.

Scrive infatti l’autore: “Il liberalismo senza teoria non è solo un modo di corrispondere praticamente ai nuovi problemi di libertà emersi ogni giorno. È anche, da un punto di vista teorico, la risposta del pensiero politico alle nuove sfide lanciate al nostro tempo dalla filosofia”. Da un punto di vista teorico, appunto.

Al netto del discutibile titolo, il pamphlet di Corrado Ocone ha molti meriti e contiene tesi interessanti, la più importante delle quali è il “salto di paradigma” rappresentato nella storia del pensiero liberale dalla figura centrale di Tocqueville. Costui dà vita a una vera e propria “frattura epistemologica”, che sancisce il passaggio dal liberalismo contrattualista e giusnaturalista delle origini, al liberalismo storicistico, dinamico e dialettico del pensiero contemporaneo. “Da sistema e ideologia che era, il liberalismo si è fatto metodo e concezione del mondo e della vita”, è la tesi fondamentale del libro. Questo liberalismo è prevalso e ha i suoi grandi esponenti in Croce, Ortega Y Gasset, Aron, Berlin e “l’ultimo Bobbio” fra gli altri.

Con questa impostazione, l’autore ripensa e riscrive (in parte) una piccola antologia del liberalismo europeo. “C’è una storia del pensiero liberale che è diversa da quella comunemente raccontata in Italia. Una storia in cui Montesquieu è più importante di Locke, Humboldt non ha nulla da invidiare a Stuart Mill, Tocqueville assume un ruolo centrale, Berlin piuttosto che Hayek o Rawls è l’autore più significativo di questo dopoguerra”. Andiamo con ordine.

Montesquieu è “il primo, grande liberale”, anche se non occupa nel relativo Pantheon il posto che gli spetta. Non è solo un illuminista. Ben oltre la nota divisione dei poteri, egli concepisce una libertà diffusa e un liberalismo plurale, “più aderente alla natura umana”.

2. Analogamente, anche il ruolo fondamentale giocato da Humboldt nell’evoluzione storica del pensiero liberale non è stato ancora riconosciuto come meriterebbe. Costui scrive nel 1792, a soli 25 anni, le sue “Idee per un saggio sui limiti dell’attività dello Stato”, un testo che finisce sotto la mannaia della censura prussiana. Il libro vedrà la luce solo quasi sessant’anni dopo, nel 1851, presso un piccolo editore slovacco, quando l’autore era morto da più di quindici anni, nel 1835. In Italia, nonostante la cosiddetta “rinascita del liberalismo”, questo libro oggi è introvabile: l’ultima edizione risale al 1965. Humboldt anticipa Tocqueville nella critica alla moderna società di massa. L’individuo è il principio e il fine di ogni attività umana, lo Stato è solo un mezzo per garantire la sicurezza. Un male necessario. “È difficile promulgare solo le leggi necessarie (…) contro il furore di governare, la più funesta malattia dei governi moderni”: sono le parole di Mirabeau che Humboldt vuole in testa al suo saggio.

Questi concetti colpirono molto Stuart Mill, che li riprese nel suo classico sulla libertà. Mill riflette bene lo spirito del tempo, è un liberale-radicale inglese dell’800, progressista e utilitarista. Ma secondo Ocone “accusa la sua età” ed è “un autore datato”. Continua a ragionare per cause ed effetti, per leggi e necessità. La libertà dell’uomo sfugge a queste categorie ma è quasi come se fosse “un residuo”. Mill è dunque un “pensatore di transizione”, mentre Tocqueville concepisce il liberalismo come storia e non come teoria.

Un capitolo a parte è dedicato a Hannah Arendt, “una delle più originali filosofe del ‘900”. La Arendt, considerata a torto più che altro una studiosa dei totalitarismi, “offre molteplici suggerimenti per una ridefinizione del liberalismo”. L’idea classica di liberalismo era incentrata su una soggettività forte, indivisa. Il problema liberale di oggi, invece, va affrontato proprio alla luce della crisi del soggetto, cioè del concetto stesso, classico e moderno, di individuo. L’individuo – ma in questo caso sarebbe meglio dire: la persona – a dispetto dell’etimologia del termine, non è affatto “in-divisibile”, anzi.

Qui Ocone tocca – a nostro avviso – un nervo sensibilissimo del dibattito contemporaneo. In effetti, Marx ha definito l’uomo “alienato”, Freud “depresso”. Per non parlare di Nietzsche, il grande “demistificatore”. Italo Calvino racconta di un uomo che si isola dal mondo arrampicandosi sugli alberi, di un altro “dimezzato”, di un altro ancora addirittura “inesistente”. A ben vedere, anche le “particelle indivisibili” di Democrito, gli a-tomoi, sono state scisse dalla scienza nucleare del ‘900, con i risultati che ben conosciamo. Dunque occorre tutelare la libertà di un individuo che però è “divisibile” dalla propria coscienza, il cui consenso è manipolato, che si auto-inganna.

3. Tornando a Ocone, egli riprende il concetto di “liberalismo plurale” elaborato da Hannah Arendt, e quella arendtiana “critica della vita intima” che propone la distinzione, così tipicamente moderna, fra pubblico e privato. Si tratta di riconciliare il liberalismo con la filosofia, o meglio il liberalismo classico, che è un’ideologia moderna, con il pensiero contemporaneo – che è post-moderno. “Il compito è maledettamente complicato” ammette l’autore, che cita ad esempio le odierne tecniche biomediche e ingegneristiche che intervengono sulla stessa natura umana.

Il libro non è privo di qualche spunto polemico. L’autore se la prende con i pretesi “neo-liberali” Galli della Loggia e Bedeschi, quest’ultimo colpevole di avere escluso dalla sua “Storia del pensiero liberale” personaggi come Piero Gobetti e Norberto Bobbio, e di avere sminuito il ruolo di Benedetto Croce. Qua e là, “Liberalismo senza teoria” non manca di punti deboli, di luoghi comuni, di incongruenze e contraddizioni. Resta nel suo complesso un libro valido, stimolante, utile alla riflessione su tanti angoli e anfratti poco illuminati della galassia liberale.