Malgrado i contatti diplomatici del mese di maggio la situazione in Libia è quanto mai instabile: gli interessi internazionali continuano a essere forti, aumentando le diatribe e i flussi migratori non accennano a diminuire
La situazione libica
Molti avevano interpretato la sconfitta di ISIS a Sirte nel dicembre scorso come il segno della fine della milizia nel paese nord africano, ma così non è stato, ed era possibile prevederlo. È vero che i miliziani di ISIS hanno perso il controllo su una città simbolo, dovendosi disperdere sul territorio e perdendo quindi in compattezza. Allo stesso tempo, però, molte strutture di sostegno sono ancora operative e i membri rimasti possono sfruttare a loro vantaggio due aspetti centrali. Da un lato, come dimostra il recente attacco pianificato in Libia contro i copti in Egitto, a cui è seguito il bombardamento di alcuni campi di addestramento da parte dell’aviazione egiziana, l’ingovernabilità libica e la conseguente mancanza di controllo del territorio permette loro di muoversi, organizzarsi e pianificare liberamente. Dall’altro lato, gli enormi spazi libici disabitati e il deserto consentono a piccoli gruppi di operare sostanzialmente indisturbati. Gli italiani ne sanno qualcosa, visto che proprio in quei deserti hanno avuto enormi difficoltà a sedare l’insorgenza libica contro l’occupazione coloniale tra gli anni Venti e Trenta del Novecento.
Il problema principale sembra dunque quello del vuoto politico libico che, malgrado alcuni passi in avanti, non pare minimamente in via di risoluzione, come i recenti e sanguinosi scontri del 26 maggio a Tripoli ci ricordano. Il tanto sospirato incontro tra i due maggiori interpreti della spaccatura politica libica, il generale Kalifa Haftar leader del Libyan National Army che governa l’est del paese, e Fayez al-Sarraj, presidente del Governo di Accordo Nazionale supportato dalla comunità internazionale e dall’Italia, non sembra infatti in grado di risolvere le complesse diatribe politiche, economiche e militari che li separano.
Ma andiamo comunque con ordine.
Il 2 maggio scorso Haftar e Sarraj si sono incontrati per discutere della situazione libica. L’incontro è stato sicuramente importante sia perché è stato il primo dopo alcuni tentativi di incontro e mediazione falliti nei mesi passati, sia perché il luogo in cui è avvenuto, Abu Dhabi, sottolinea come la diplomazia occidentale stia perdendo posizioni, mentre avanzano quella russa ed egiziana. Gli Emirati Arabi Uniti fanno infatti parte dell’alleanza che supporta il generale Haftar anche attraverso il sostegno russo e del Cairo.
Al termine dell’incontro i due leader hanno emesso dichiarazioni separate e piuttosto vaghe, e non è stata definita alcuna misura concreta per giungere a un vero e risolutivo accordo politico. Tuttavia, sembra che si siano accordati su almeno un paio di punti che potrebbero essere cruciali per risolvere la questione libica: le elezioni nel 2018 e il raggiungimento di un’unità delle forze armate formando un esercito libico unico.
Da un lato, le elezioni darebbero legittimità politica a una delle fazioni, anche se il rischio di un’ulteriore frattura è più che concreto; mentre l’unificazione delle forze armate ridurrebbe drasticamente i conflitti tra le fazioni e offrirebbe all’eventuale governo uno strumento unito ed efficace per combattere contro le rimanenti sacche di resistenza. Dall’altro lato, però, data l’attuale frantumazione del Paese, riesce molto difficile capire come questi due elementi possano essere raggiunti.
Le elezioni rischiano di essere un vuoto passo politico, come in fin dei conti lo sono state in passato e non solo in Libia. In assenza di strutture governative adatte, è più importante il processo politico, che va strutturato e unificato nelle sue varie ramificazioni attraverso un paziente lavoro diplomatico, più che la procedura delle elezioni. L’esercito unitario è un passo imprescindibile sia se si vuole raggiungere un adeguato livello di sicurezza e stabilità interna, sia nel quadro della lotta ai gruppi terroristici e criminali che operano liberamente in Libia. Allo stesso tempo, però, al momento appare molto difficile che Haftar ceda parte del suo potere e ruolo militare a Sarraj, il quale a sua volta non pare voglia, o possa (visto che l’alleanza che lo sostiene è formata da vari gruppi nemici di Haftar), concedere un ruolo di primo piano ad Haftar.
Il conflitto persistente tra le due fazioni è poi stato reso evidente dai recenti scontri presso la base aerea di Brak Al-Shati nel sud del Paese. Il Libyan National Army, ovvero la forza di Haftar, controllava la base sin dal dicembre scorso quando la conquistò dopo brevi combattimenti. Il 17 maggio forze di una milizia legata al governo di Tripoli hanno attaccato la base massacrando gran parte dei soldati presenti, ma lasciando il controllo della stessa al LNA. Questo episodio certamente è un grave indicatore di una situazione particolarmente complessa e instabile tra le principali forze armate che operano in Libia.
La Libia e l’Africa
La stabilità della Libia, o quanto meno il fatto che il Paese torni ad essere uno stato sovrano con un certo controllo del proprio territorio, è un punto essenziale per la sicurezza non solo dell’Italia ma anche dell’Europa come purtroppo dimostrano i legami tra il recente attentato a Manchester e il paese nordafricano. L’instabilità della Libia, però, non è solo figlia della situazione locale, ma anche di dinamiche che vanno ricercate più all’interno del continente africano.
A causa del vuoto politico e di sicurezza seguito al crollo del regime di Gheddafi, il nord Africa, e la Libia in particolare, sono diventati gli sbocchi principali di svariati traffici illegali. Qui, infatti, le molte insorgenze a sfondo jihadista sono strettamente collegate ai proventi derivanti da un’ampia serie di traffici illeciti criminali. Nel Maghreb islamico Al-Qaeda controlla vaste aree desertiche a sud dell’Algeria e ricava i propri proventi dalle tasse che riscuote in quelle zone ricche di traffici. Boko Haram in Nigeria è, invece, più legato ai traffici di cocaina e di eroina. ISIS in Libia basa i suoi proventi principalmente sul traffico di esseri umani e di narcotici. Questi traffici sono remunerativi per una serie di ragioni. Da un lato sfruttano i vuoti di potere che contraddistinguono molte zone africane che così diventano perfette aree operative. È in questo contesto che va inserita la logica strategica dell’intervento francese in Mali, oppure dei recenti discorsi su un possibile intervento militare sotto la bandiera dell’UE tra Libia e Niger. Dall’altro lato, i traffici sono remunerativi perché sono a basso rischio di controlli. I governi in quelle zone sono infatti poco interessati al problema e ben il 40% di loro non registra alcuna condanna per il traffico di esseri umani.
Accade così che in Africa, ma non solo, i traffici e i relativi elementi associati di criminalità si sono progressivamente fusi a insorgenze e guerriglie di stampo jihadista. Queste sono riuscite così a crescere e guadagnare spazi di manovra sempre più importanti fino a minacciare direttamente gli Stati. La convergenza, quindi, tra gruppi criminali e gruppi terroristici/insorgenti (come già evidenziato su queste pagine la distinzione spesso è fuorviante) rafforza la loro notevole capacità di eludere i confini nazionali e di adattarsi a nuove situazioni e contromisure. Sono gruppi flessibili e al tempo stesso sofisticati, oltre che capaci e radicati nelle rispettive aree operative.
Un esempio di questa adattabilità può essere al-Shabab, il gruppo insorgente jihadista somalo, che qualche anno fa commerciava in carbone e legname grazie al controllo che esercitava su alcuni porti. E quando, dopo l’intervento delle forze dell’AMISOM (African Union Mission in Somalia), ha perso il controllo diretto sui porti, si è spostato nelle aree rurali più interne, da cui tassa i beni in transito verso il mare.
Non è quindi un caso che l’Africa sia diventata negli ultimi anni il luogo dove si è maggiormente intensificata l’azione delle Forze speciali americane. Come ha rilevato un recente studio, non solo le operazioni di forze speciali a livello globale da parte degli Stati Uniti sono aumentate esponenzialmente, ma nel continente africano si è passati da una percentuale dell’1% delle truppe disponibili dispiegate al 3% nel 2010 e a quasi il 20% nel 2016. Queste percentuali indicano inoltre un mutamento radicale nel focus geopolitico americano: il Medio Oriente resta la regione dove le forze speciali sono maggiormente impiegate e dispiegate, ma subito dopo segue il teatro africano. Le operazioni di queste truppe sono per la maggior parte segrete, ma mirano a raccogliere informazioni sulle reti terroristiche (anche per poter offrire bersagli e dati su possibili obiettivi ai droni), a fornire appoggio ad alleati locali (come per esempio in Somalia dove il 4 maggio è stato ucciso un Navy Seals durante un’azione a supporto delle forze locali), e a realizzare raid mirati contro basi di insorgenti o elementi di alto profilo. Poi ci sono gli interessi cinesi e francesi, pure molto forti nell’Africa sub-Sahariana. E anche l’Italia, che storicamente con l’Africa intrattiene una importante rete di contatti, dovrebbe lavorare maggiormente per sostenere i propri interessi.
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