Non è mai facile ammettere la fine di un’illusione. L’ultimo scorcio della presidenza di Barak Obama, primo Presidente afroamericano e promotore dello slogan visionario “yes we can”, costringe a farlo.
Barack Obama ha fatto tutto il possibile e l’impossibile per assicurare l’elezione di Hillary Clinton a presidente degli Stati Uniti, utilizzando in pieno la macchina organizzativa della Casa Bianca allo scopo di procurarle la “nomination” e presentandola all’elettorato con un’iperbole sfacciata, quella secondo cui Hillary sarebbe la persona “più preparata nella storia americana ad assumere la presidenza”, con buona pace di Lincoln, FDR e Richard Nixon. Tanta pervicacia di Obama nel perorare la causa di Hillary, inclusi gli attacchi scurrili al suo avversario Donald Trump, ha una spiegazione più che ovvia: l’elezione del suo ex Segretario di Stato costituirebbe una positiva rivendicazione della sua presidenza. Del resto, la stessa candidata presidenziale non aveva disdegnato gli accostamenti ad Obama come sua continuatrice, quanto meno per quel che concerne la politica sociale ed economica della nuova eventuale amministrazione democratica. Di recente, però, questo afflato di ispirazione obamiana si è affievolito, per ragioni altrettanto evidenti; in primo luogo, il deterioramento della politica estera di Barack Obama che mostra ormai il segno di indecisione e frustrazione su più fronti strategici, in primis nell’orripilante teatro bellico della Siria.
Il confronto con la Russia di Putin si è intensificato al punto che ogni tentativo di dialogo diplomatico sta fallendo con la conseguenza che Stati Uniti e Russia appaiono incapaci di controllare gli sviluppi di un confitto che miete vittime civili come pochi altri nella recente storia mondiale. La stessa decisione di Washington di sospendere le discussioni con Mosca sulla situazione siriana riflette il riconoscimento che anche la Russia non vede alternative nei confronti di Assad, che è più forte grazie al sostegno russo ed al tempo stesso incontrollabile. Un’intesa vecchio stampo tra le due superpotenze non sembra raggiungibile per la tragica ragione che il conflitto cesserà solo con la vittoria di una parte. Il fatto stesso che l’Amministrazione Obama non sia riuscita a far valere una cessazione del fuoco, quanto mai fragile e di breve durata per soccorrere i civili, non può che essere interpretata, oltre che in termini di inconciliabilità delle opposte strategie, come risultato di un pesante errore politico degli Stati Uniti e della conseguente debolezza del corso di azione di Obama.
Il giudizio di fondo sulla Presidenza Obama abbraccia comunque un orizzonte più vasto che uno dei suoi critici, l’accademico e stratega Andrew Bacevich, condensa in questo interrogativo: quali lezioni può trarre l’America dalle costose e scoraggianti guerre successive al 9/11 e come applicare quelle lezioni a politiche future? È una visione che l’Amministrazione Obama non ha affrontato con la determinazione necessaria, alternando decisioni dichiaratamente contrarie all’intervento ad altre, come quella di sopprimere Gheddafi, che hanno scoperchiato la scatola di Pandora con l’avvento di ISIS in Libia.
Il vuoto che caratterizza attualmente la politica di sicurezza nazionale dell’Amministrazione Obama traspare tanto più chiaramente dal confronto elettorale in atto, dove un candidato, Donald Trump, dimostra crassa incompetenza in politica estera, mentre da parte sua Hillary Clinton, pur ferrata in quel campo a motivo dell’incarico svolto per quattro anni alla guida del Dipartimento di Stato, si rifugia continuamente in frasi fatte e luoghi comuni. Tra l’altro Hillary ha molto da farsi perdonare, dall’annuncio sull’opportunità di un “reset” nei rapporti con la Russia al voltafaccia sull’utilità degli accordi commerciali, come il TPP (Trans Pacific Partnership), che a suo tempo aveva paragonato ad un “gold standard” vantaggioso per gli Stati Uniti.
Al tramonto della presidenza Obama, quel che molti osservatori giudicano inquietante è la scarsa attenzione che gli Americani rivolgono ai problemi che investono la politica di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, a partire dall’avanzamento globale degli armamenti non nucleari, come quelli della “guerra cyber”. Nuove generazioni di bombardieri, missili e sommergibili – la modernizzazione fortemente voluta dal Pentagono – non garantiscono l’eliminazione di minacce asimmetriche come il terrorismo degli estremisti islamici. Ma di questo non si discute nei dibattiti televisivi tra i candidati alla presidenza e vicepresidenza, dove prevalgono feroci accuse sulla denuncia dei redditi di Donald Trump, sulla valanga di email sospette di Hillary Clinton, sulla pinguedine di Miss Universo e sul misoginismo che ha praticamente distrutto la candidatura di Trump. Il discorso politico non potrebbe essere più vacuo di quello che imperversa nei dibattiti televisivi in America. Chiamato a rispondere su un tema terrificante (“Il Presidente Obama avrebbe preso in considerazione un mutamento della direttiva di lunga data circa il “first use” delle armi atomiche. Siete a favore di un tale cambio?”, aveva chiesto il moderatore del primo dibattito), Trump aveva risposto in termini generali definendo Armageddon la “alternativa nucleare”. Subito dopo, prendeva posizione contro un “first strike” ma poi si contraddiceva ricorrendo alla perdurante trita enunciazione: “non posso escludere nulla di quanto è sul tappeto”. Hillary evitava la trappola di una risposta compromettente e cambiava destramente argomento rifugiandosi in una solenne promessa di difendere gli alleati dell’America.
In un clima politico che si tinge sempre più di sospetti e rischi conflittuali dovuti anche ad errate interpretazioni, il Presidente Obama non può non accollarsi qualche responsabilità, segnatamente per aver sospinto quello che a tutti gli effetti è un processo di “escalation” delle tensioni con la Russia. Di fatto, è senza precedenti la dichiarazione ufficiale della Casa Bianca che rivolge la pesante accusa al governo russo di aver preso di mira il comitato nazionale democratico ed altre organizzazioni politiche negli Stati Uniti con il preciso intento di interferire nelle elezioni presidenziali. La mossa di Obama ha avuto l’immediato effetto di spalancare la prospettiva di misure punitive degli Stati Uniti a carico della Russia, a cominciare da una possibile offensiva cyber indirizzata alle reti di computer russi.
Per quanto lo stesso Obama abbia dichiarato di essere “guardingo” dinanzi alla prospettiva di un “ciclo di escalation”, gli ultimi sviluppi dischiudono la possibilità di un inasprimento delle sanzioni imposte ai danni della Russia dopo il suo intervento in Ucraina. Per contro, non dovrebbe esserci dubbio che Stati Uniti e Russia non vogliono una “escalation” di intensità paragonabile al passato della guerra fredda, in una congiuntura esplosiva come quella di aerei americani e russi che si incrociano nel cielo della Siria. Prese nel loro insieme, le dichiarazioni dell’Amministrazione Obama riflettono un deciso irrigidimento in campo internazionale, a cominciare dalla richiesta del Segretario di Stato Kerry di una “investigazione” circa presunti crimini contro l’umanità commessi da Russia e Siria. A sua volta, la Russia ha reagito schierando missili con potenziale nucleare a Kaliningrad: una mossa che è stata registrata “con sgomento” dal Ministro degli Esteri tedesco Steinmeier.
Last but not least, le relazioni tra Stati Uniti e Israele non hanno mai versato in peggiori condizioni come nella seconda presidenza Obama. Un analista americano di destra, Charles Krauthammer, è giunto a sostenere che Obama abbia “minato” Israele in forza della sua “antipatia” nei confronti dello stato ebraico, oltre che della sua “arroganza di dilettante confusionario”. La freddezza dei rapporti con il primo ministro Netanyahu testimonia il fallimento degli sforzi americani di preservare la soluzione dei due stati in presenza di una politica israeliana che mira a rendere permanente l’occupazione del West Bank realizzando di fatto l’annessione di tutto il territorio compreso tra il Giordano ed il Mare Mediterraneo. Non solo, ma Netanyahu ha risposto alle pressioni di Obama sfoderando una “chutzpah” degna di Orwell quando ha definito tali pressioni per l’eliminazione degli insediamenti illegali una forma di “pulizia etnica”. Ed ancora, Obama è ora bersaglio di una campagna che lo accusa di voler modificare la tradizionale opposizione statunitense in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU a qualsiasi progetto di risoluzione avverso alla occupazione israeliana nella Cisgiordania. Ottantotto senatori non hanno perso tempo nell’inviare al Presidente Obama una lettera in cui sollecitano la riaffermazione della “politica di lunga durata” del veto degli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza. Tra le opzioni che Obama potrebbe esercitare prima di lasciare la Casa Bianca figura quella di appoggiare una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza che sostituisca la famosa Risoluzione 242 del 1967 con cui veniva chiesto ad Israele di ritirarsi dai territori conquistati nella Guerra dei Sei Giorni e di restituire quei territori ai Paesi confinanti (allora non si parlava di un possibile stato palestinese). Un’altra opzione sarebbe quella di misure dell’Internal Revenue Service, l’agenzia delle entrate, tali da eliminare le esenzioni fiscali di quelle organizzazioni non a fine di lucro che finanziano l’espansione degli insediamenti ebraici.
Una considerazione finale circa il tramonto dell’Amministrazione Obama è che nell’ultimo scorcio della sua presidenza è venuto meno il fattore “speranza” che aveva germogliato all’apice della carriera di Barack Obama. La promessa di “speranza e cambiamento” che nel 2009 animava Obama, e con lui la grande parte sana del Paese, mirava a riportare unità e coesione, superando le paure suscitate da un’opposizione che sin dal primo momento si era impegnata a fare di lui un “one term president”. Non c’era riuscita, ed Obama lascia tra pochi mesi il suo secondo mandato con l’integrità di un presidente, il primo afro-americano, che onestamente ha tentato di superare la polarizzazione che si è acuita in America di pari passo con le tensioni sulla scena mondiale. Tra i cambiamenti che Obama non ha realizzato vi è infine quello della “conciliazione razziale”, vittima di rigurgiti di razzismo e della violenza esplosa nelle città negli ultimi due anni.
La triste conclusione è che l’impossibilità, per non dire l’incapacità di Barack Obama di proporre riforme sistematiche – anche a motivo di un Congresso intransigente - consegna al suo successore la pesante eredità di una “speranza” disillusa e di un “cambiamento” disatteso da una presidenza che alla resa dei conti si è rivelata convenzionale.
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