Parrebbe l'ultimo dei nostri problemi. Qualcuno ha chiesto e ottenuto la rimozione di una scultura dalla Punta della Dogana, a Venezia. Al suo posto verrà rimesso il lampione ch’era stato rimosso in via provvisoria nel 2009. Il motivo della richiesta è semplice. La scultura, che ritrae in modo realistico un bambino che afferra una rana, è un segno troppo sfacciatamente moderno per poter rimanere troppo a lungo nel cuore della Venezia monumentale. Stride.
Nell’anno in cui tutto pare caderci addosso come macigni, questo parrebbe essere l’ultimo dei nostri problemi. La rimozione anticipata di una scultura dallo spazio pubblico di una città d’arte. Eppure, a ben vedere, l’episodio è un ammonimento, una fiaba morale, sullo stato di catalessi in cui siamo piombati ben prima che iniziassero a cadere i massi. Anzi, per la precisione, questo episodio indica esattamente in motivo per cui, d’improvviso, un giorno, tutto è iniziato a caderci addosso.
1. Venezia è una città unica e irripetibile. Non c’è aspetto della modernità che non appaia come uno sfregio alla sua radicale alterità, il suo esser altro da noi. Questo è ovviamente vero per qualsiasi città d’arte italiana, ma è ancora più vero per Venezia, una città che pare ancora vivere in un passato remoto. Tutto quello che non appartiene al passato, stona. L’opera di Charles Ray che ritrae un bambino che afferra una rana non può che stonare in Punta della Dogana, uno dei luoghi aulici della città. Ma essendo un’opera d’arte pensata per occupare quel punto, il suo ’stonare’ va considerato come un luogo del senso, e non come un mero incidente. Le tubature a vista che corrono lungo i muri, stonano. Ma non sono un luogo del senso. Sono una necessità, anche se causano disagio all’occhio. Chi chiede il ritiro dell’opera ritiene che il suo stonare sia anch’esso il prodotto di un disagio della città verso ciò che non le appartiene. Eppure, a questi signori, non verrebbe mai in mente di chiedere la rimozione delle tubature del gas, dei fili elettrici, delle antenne televisive, dei pontili dei vaporetti, dei taxi d'acqua che solcano la laguna a prezzi da rapina. Sono cose che stonano, ma che tornano utili. Quindi dobbiamo arguire, in prima battuta, che ciò che questi signori non possono tollerare è che a stonare sia qualcosa che intende esprimere senso in un luogo già ricolmo di senso. Ciò che li turba è il segno, non lo sfregio.
Chi chiede la rimozione anticipata della scultura quindi ne coglie il senso. Non lo cogliesse, non avrebbe alcuna difficoltà a tollerarla come tollera i carretti di maschere nell’area monumentale marciana, i negozietti di souvenir in ogni angolo della città, la trasformazione della stessa in un parco tematico e commerciale. Il problema non ha nulla a che vedere con tutto questo. Il problema è un fanciullo che afferra la rana.
Prima di procedere oltre, e chiederci che cosa si possa mai vedere di così stonato nell’opera di Charles Ray, è bene precisare che quanto abbiamo appena esposto è una sindrome tipicamente veneziana. Il veneziano non vede il danno inflitto alla città dal proprio operare, in quanto ritiene che qualsiasi danno alla città venga sempre inflitto da altri. Non ha nulla di particolare da dire sui propri esercizi commerciali, spesso votati al più bieco sfruttamento del flusso turistico. Il veneziano si scaglia contro i «foresti» che non lo lasciano vivere a suo agio e si agita quando vede arrivare in porto una grande nave, come se quella grande nave non fosse in alcun modo legato alla propria sfera di attività.
Di nuovo: se il fanciullo fosse ’utile’, nessuno avrebbe nulla da dire sulla sua presenza, come nessuno dice nulla sulle stucchevoli maschere che i figuranti assunti dal Comune portano in giro durante il Carnevale. Il problema sta in quello che il fanciullo rappresenta, e poco importa se nel frattempo sia diventato uno dei luoghi più fotografati nella città più fotografata del mondo. Forse il problema è che non si vendono più rullini in gran numero, o che nel suo essere fotografato il fanciullo diffonde ancor di più il presunto sfregio inflitto alla città. Veniamo dunque al senso che questa scultura pare trasmettere, perché in fondo è questo il problema.
2. C’è una scena nella versione cinematografica di Luchino Visconti del capolavoro letterario di Thomas Mann «Morte a Venezia» in cui un fanciullo imberbe, Tadzio, è visto attraverso lo sguardo rapito di Gustav von Aschenbach, un anziano letterato, mentre fa il bagno nella spiaggia dell’Hotel Des Bains. Molti notano subito il contenuto omoerotico della scena prima ancora di notare che il vecchio morente (il cui cui nome significa letteralmente «cascata di cenere») vede nel giovane fanciullo un emblema del tempo che fugge, colto solo pochi istanti prima della fine. La vita è meravigliosa, e von Aschenbach lo capisce solo quando finalmente alza lo sguardo dai libri, dal mondo ordinato dell’arte, e guarda il brulichio insensato della vita che per troppi anni ha evitato accuratamente di vedere. La vita è ora, l’attimo fugge, e a breve sarà sgusciata dalle mani, come la rana che da bambini credevamo di aver afferrato per sempre. Solo il fanciullo imberbe vive nell’attimo. È felice, ma non sa di esserlo. Lo capirà solo nel ricordo. Von Aschenbach e Tadzio sono la stessa persona all’inizio e alla fine di un ciclo vitale.
Chi chiede la rimozione del fanciullo di Charles Ray dice di farlo nel rispetto paesistico della città. Poi aggiunge che la sua presenza è il segno di una colonizzazione culturale di Venezia da parte degli stranieri, l’americano Charles Ray che ha realizzato l’opera e il francese François Pinault, il ricco mecenate che l’ha commissionata per adornare la sua collezione personale istallata proprio a Punta della Dogana, oltre che a Palazzo Grassi. Chi dice queste cose è in malafede, perché sa benissimo che se dovesse espungere la presenza, non solo fisica, ma culturale degli stranieri, di Venezia rimarrebbe ben poco. Certamente non le pietre e le colonne rubate dai veneziani in ogni dove, e le opere scritte da stranieri che hanno fatto la fortuna di questa città, per non dir nulla delle abitazioni al momento in loro possesso: non c’è milionario che si rispetti che non abbia uno strapuntino a Venezia. Quindi non pare possibile che venga chiesta la rimozione del fanciullo per simili futili motivi.
Il fanciullo va rimosso perché turba. Ci ricorda qualcosa di rimosso che vorremmo dimenticare e che pensiamo di poter rimuovere ancora. Ci ricorda che il tempo fugge e presto la vita sarà solo un ricordo che ci sguiscia dalle mani. Ma non solo. Ci ricorda di un elementare marchingegno sociale che si è inceppato e che non abbiamo provveduto a riparare.
Chi chiede a gran voce la rimozione dell’opera vuole che sia rimesso a posto il lampione tolto provvisoriamente per far spazio a una statua di un bambino nudo che tiene in mano una rana. Non importa se il lampione è solo una replica di un lampione ottocentesco. A lui basta che gli venga tolto dagli occhi la nudità del bambino che evidentemente lo turba. Forse ha intuito che quel fanciullo è a suo agio lì dov’è, molto di più di quanto non sia lui con il suo desiderio di riabbracciare un lampione. O forse ha capito che sta lì a indicare qualcosa, qualcosa di appena afferrato e che però gli sfugge. Ma che cosa sarà mai questa idea senza nome?
È l’eterno ritorno dell’uguale. Sotto mentite spoglie, tutto ritorna e si ripete. Il tempo ci sfugge e presto saremo tutti morti. E ci accorgeremo delle meraviglie che ogni giorno ci sfuggono solo quando sarà troppo tardi. Ma allo stesso tempo l’opera riporta alla mente una delle caratteristiche scoperte da Charles Baudelaire sul moderno e la sua sindrome. Nella nostra epoca, l’eterno si presenta sotto le spoglie dell’effimero. Bisogna saper cogliere nella moda fuggente il riflesso di ciò che non muta e si ripresenta sempre uguale.
Il bambino di Charles Ray è l’effimero attraverso cui cogliamo l’attimo eterno di cui Venezia è la più maestosa approssimazione mai riuscita alla nostra specie. Rimuovere l’effimero per riaffermare la patacca della tradizione (e la tradizione è sempre una patacca, una ricostruzione a fini normalizzatori) è una delle più profonde pulsioni della psicologia autoritaria di cui la cultura italiana, con il suo gravame di poteri dogmatici, è una delle manifestazioni più vistose e spesso deprecabili. Non capiamo ma intuiamo un pericolo. Allora ci diamo da fare perché venga rimosso. La rimozione è uno dei principali luoghi attraverso cui il Paese si difende dalla percezione dell’ovvio. Che nulla di ciò che ci circonda è eterno.
Accettare il carattere transeunte del vivere è accettare il carattere tragico dell’esistenza ma è anche allo stesso tempo l’unico principio sociale che si può dire responsabile. La società esiste per sopravvivere alla morte del singolo individuo. Solo i pazzi e, appunto, i bambini vivono nell’attimo. Tutti gli altri volgono lo sguardo altrove per garantire un futuro alla civiltà. Anche questo è un aspetto tragico dell’umano: non possiamo lasciarci andare che all’ultimo. Pena la dissoluzione di ciò che lega il passato al futuro attraverso l’attività produttiva del presente. Quindi Tadzio va rimosso perché possa rimanere solo un ricordo, un ammonimento sulla necessità di essere operosi nel presente. Non possiamo come specie vivere nell’attimo se non nella morte.
Nella pulsione autoritaria che rivuole al suo posto il lampione si ripresenta l’eterno desiderio di rimuovere ciò che ci turba ricordandoci della nostra insopprimibile mortalità. Non sono questi pensieri utili. Ma l’arte è proprio il surrogato attraverso cui riappropriarci di quanto tolto dal processo di rimozione. Ecco dunque il carattere liminare dell’opera di Ray, che non può se non essere provvisoria, posta al bordo fra la sua presenza e la sua assenza. Chi ne vuole la rimozione legge l’opera correttamente, meglio di chi la reputa solo una scultura alla moda.
Veniamo dunque ai massi.
3. Il meccanismo di riproduzione sociale si è inceppato in Italia. La tradizione non è adattata al cambiamento nell’opera del presente, ma quest’opera è diventata fine a se stessa in quanto volta solo alla pura conservazione delle relazioni di potere esistenti. La pura conservazione, però, non è possibile alla luce del divenire, e quindi si producono fenomeni che nuocciono alla stessa conservazione sociale. È una specie di neoplasia, l’autoriprodursi di cellule sempre uguali che distruggono l’organismo sociale per eccesso. Il motivo per cui ciò accade è storico: l’Italia non è un organismo sociale, ma una specie di mostro di Frankenstein, una ricucitura forzata di parti diseguali. Per un breve periodo, dopo la Liberazione, si era pensato che questo corpo artificiale potesse vivere proprio grazie all’artificio di regole costituzionali condivise. Ma già Tomasi di Lampedusa ci avvertiva nel 1957, con la pubblicazione de Il Gattopardo, che tutto era cambiato proprio perché tutto rimanesse uguale. Con il passare del tempo, la disuguaglianza sociale fra le regioni ha prodotto fenomeni di rigetto ai quali la classe politica avrebbe dovuto già da un pezzo reagire con rigore. Non lo ha fatto.
Il mancato riconoscimento dell’avversario ha portato la politica italiana a generare passati non condivisi, inconciliabili e irriducibili. La retorica anitcomunista usata da Berlusconi ha escluso la necessaria mediazione che sola può garantire la stabilità politica di un paese. Peggio hanno fatto gli antiberlusconiani che per opportunità politica, o bieco tornaconto personale, hanno eretto steccati sempre più alti. In assenza di un fuoco purificatore (la rivoluzione proletaria o liberale) siamo giunti ad un punto in cui emergono forze che non si pongono più lo scopo di far meglio funzionare la democrazia liberale - la mediazione fra le parti - ma vogliono esse stesse rappresentare da sole la neoplasia italica occupando senza posa tutto l’occupabile. Ma senza compromesso alcuno. L’attimo in cui ciò avesse a compiersi, sarebbe l’attimo che anticipa la fine.
È questa la corruzione dei costumi che affligge la nostra epoca. L’incapacità di comprendere che democrazia è mediazione e che ogni azione del presente dovrebbe aprirsi a un futuro condiviso. Non siamo una nazione se una parte politica può ammettere solo ed esclusivamente ciò che porta il paese nelle direzione che ritiene giusta. Una nazione sana sa che queste pulsioni vanno represse non nella pura rimozione ma nel dialogo con l’aterità che solo può costruire un futuro in cui il bene di un individuo è il bene della collettività coincidano.
La rimozione forzata dell’opera di Charles Ray ci ricorda che in questo paese si è cessato di guardare al futuro come punto di orientamento dell’operosità del presente e che la conservazione del passato è diventata una attività da perseguire ad ogni costo, anche sapendo che ciò che per convenienza riteniamo essere il passato è una patacca. Basta che sia invisa all’avversario, lo «straniero» in seno, il «nemico» irriducibile di cui parla Carl Schmitt. Questo ci basta. E quindi cadono i massi. Perché non tutto ciò che è reale è sopprimibile, e tutto ciò che sfugge al nostro tentativo di conservazione si vendica con la violenza della propria insopprimibilità.
A Venezia tutto questo è particolarmente evidente, ma riguarda l’intera nazione. Siamo un paese che non guarda più al futuro, e ciò che passa per il suo fulgido passato è solo una patacca senza nome.
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