In tempi di spending review, reale o presunta che sia, un po' tutte le amministrazioni pubbliche sono costrette a ripensare, anche solo a parole, le proprie politiche di spesa. I tagli imposti a Roma dall'esigenza di riportare sotto controllo il deficit statale inducono a cascata una serie di decisioni per contenere i costi da parte delle strutture periferiche dello Stato, decisioni spesso impopolari e oggetto di proteste, scioperi e manifestazioni di dissenso anche acceso.

In questo scenario, desta particolare sorpresa la decisione da parte di alcuni rettori italiani, in totale controtendenza rispetto al trend appena descritto, di aumentare il deficit, rinunciando a far pagare a determinate categorie di persone le tasse universitarie.

In un Paese dove le tasse universitarie, anche nello scaglione di reddito più elevato, sono largamente insufficienti a coprire i costi per il funzionamento dell'accademia, è saggia la decisione di ridurre ulteriormente la capacità di quest'ultima di reggersi sulle proprie gambe?

1. Pur essendo chiare e di per sé apprezzabili le ragioni che hanno indotto i rettori a compiere queste scelte, sono diversi i motivi di perplessità. In effetti, come informa Linkiesta, le decisioni dei rettori non sono tutte uguali. Da un lato, vi sono quanti (a oggi, Flavio Corradini di Camerino e Giuliano Volpe di Foggia) hanno deciso di esentare dalle tasse universitarie i figli di genitori in cassa integrazione o mobilità, o divenuti disoccupati negli ultimi dodici mesi. Dall'altro, si registra la decisione dell'intramontabile rettore della Sapienza Luigi Frati di regalare l'iscrizione a tutti i secondi figli di qualunque famiglia, a prescindere dal reddito.

Contro quest'ultima decisione militano tutti gli argomenti variamente spesi da copiosa letteratura per contestare l'erogazione universale gratuita di servizi cosiddetti pubblici: parafrasando il detto, tanto noto quanto poco seguito, nessun corso è gratis, per cui l'effetto dell'università gratuita per tutti è a ben vedere quello di far pagare l'università dei ricchi alle famiglie povere che, per necessità o per scelta, mandano comunque i propri figli a lavorare, anche a fronte di un'università che non costa nulla.

Ciò valeva per l'acqua e gli altri servizi pubblici ai tempi del dibattito sui referendum del 2011, e vale a maggior ragione per un servizio non classificabile come essenziale come l'istruzione superiore. Qualora residuasse qualche dubbio, uno sguardo comparatistico dovrebbe fugarli tutti: c'è un Paese dove la costituzione prevede espressamente che tutti i cittadini, a prescindere dal reddito, abbiano diritto all'istruzione gratuita negli istituti statali a qualunque livello (dunque non solo nei nove anni di istruzione obbligatoria). Quel Paese è la Grecia, e la cosa qualche riflessione dovrebbe suggerircela (peraltro lo stesso articolo stabilisce che le università devono essere necessariamente pubbliche, una previsione che ha tutta l'aria di violare clamorosamente la libertà di stabilimento di università private di altri Paesi europei garantita dal diritto dell'UE).

2. Ma se la decisione di rendere gratuita l'università a prescindere dal reddito è più facilmente criticabile, non convince neppure la scelta di Foggia e Camerino. Chiaramente, essa è più in linea con una visione liberale classica, einaudiana di uguaglianza delle opportunità, nel senso di riservare ai meno fortunati i mezzi per poter competere ad armi pari, in modo che non siano svantaggiati dall'essere nati in una famiglia povera che non aveva la disponibilità economica per mandare all'università i propri figli.

Tuttavia, la decisione in questione ha anch'essa un punto debole nel fatto di dare per scontato che il poter avere accesso ad un'istruzione superiore sia necessariamente cosa buona e giusta. Partendo da questa premessa, infatti, si distorce il comportamento dei ragazzi e delle loro famiglie, creando un forte incentivo ad ingrossare in massa i ranghi delle matricole, "tanto è gratis".

Eppure, come hanno spiegato su lavoce.info Caroleo e Pastore, è sempre più diffuso in Italia il fenomeno dei giovani cosiddetti overeducated, cioè laureati che fanno un lavoro per cui è sufficiente il diploma, e questo perché non trovano occupazioni in linea con il proprio più elevato livello di istruzione. Si direbbe che le famiglie italiane abbiano iniziato a recepire questo segnale, visto che negli ultimi anni, per la prima volta dal Dopoguerra, sono diminuite le immatricolazioni all'università, che purtroppo, anche nelle facoltà più prestigiose, si dimostra evidentemente non più in grado di rappresentare l'ascensore sociale che è stata in passato. Peraltro questo scenario, per una volta, è tutt'altro che solo italiano, essendoci tutte le avvisaglie anche negli Usa del possibile scoppio nel prossimo futuro della bolla dei college (e pure delle grad schools).

3. Ora, di fronte a questi dati, chi si pone dal lato dell'offerta di istruzione universitaria ha due scelte: sostanzialmente ignorarli, e continuare a portare avanti la convinzione progressista per cui mandare il maggior numero di giovani all'università è comunque la cosa buona e giusta da fare, indipendentemente da quanto ciò li aiuti a trovare effettivamente lavoro, e da cosa il "pezzo di carta" dal valore legale dia realmente loro in termini di crescita personale. Oppure, l'università può ragionarci sopra e chiedersi se non sia necessario apportare cambiamenti nei contenuti e nelle modalità della propria offerta, in modo da renderla nuovamente un investimento redditizio e quindi attraente per gli studenti e le loro famiglie.

Purtroppo, sia detto con il massimo rispetto, la decisione di Camerino e Foggia sembra andare nella prima direzione. L'università, in effetti, avrebbe invece bisogno di misurare quanto vale, in modo da poter andare incontro alle esigenze di quelli che - piaccia o no - sono gli utenti, i clienti, i consumatori dei servizi da essa offerti.

Perché ciò sia possibile, però, è da un lato imprescindibile che si abolisca il valore legale, ma su questo non torniamo perché Agenda Liberale ha già condotto al riguardo una valorosa battaglia, anche se purtroppo perdente, sviscerando ogni argomento. Ma c'è un altro aspetto, strettamente collegato: per poter misurare il valore, non più legale, ma di mercato, dell'istruzione universitaria, i prezzi dovrebbero essere liberi di fluttuare in alto e in basso, in modo da costruire un'offerta completa e adeguata a tutte le esigenze. Il prezzo, infatti, è un contenitore di informazioni troppo importante perché se ne possa continuare a fare a meno: un prezzo imposto nasconde queste informazioni, e un prezzo imposto a zero svilisce completamente il valore del bene o servizio, a cui infatti poi si sente il bisogno di attribuirne uno per legge. Quando (se) lo si liberalizzerà, invece, si otterrà la miniera di informazioni da cui si potrà estrarre quasi tutto ciò che serve per sapere se si sta operando bene o male.

Allora sì, ma solo allora, avrà senso una scelta di policy che permetta anche a chi non ha i mezzi di frequentare le migliori università se ne ha i numeri. Ma finché l'università non ha un prezzo liberamente determinato, le decisioni di renderla gratuita, senza intervenire con un profondo ripensamento sul modello di istruzione superiore diffuso nel nostro Paese, saranno nel migliore dei casi un pannicello caldo buono a rasserenare la coscienza dei progressisti, e nel peggiore un colpo ulteriore allo svilimento dell'accademia. La quale non ne avrebbe davvero bisogno, perché troppo maltrattata da decenni di mala politica che l'ha occupata e piegata alle proprie esigenze, progressivamente guastandone la reputazione, da quel tipico Re Mida al contrario che è.