Siamo oramai abituati a vedere sfilare di anno in anno nei servizi televisivi le immagini della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, durante la quale vengono in sostanza espressi legittimi malesseri del sistema e numeri, e non ci rendiamo più conto oramai che questi eventi pubblici rappresentano in realtà uno spaccato importante dello “stato della Nazione” e non una semplice parata di toghe ed ermellini.
La battuta “non mangio i wurstel e non frequento i Tribunali, perché non mi fido delle cose che non so come sono fatte” rende in modo ironico e paradossale il fatto che il sistema giustizia è spesso percepito come un mondo molto complesso e articolato, che sfugge a una rapida e immediata comprensione e che nel tempo ha, purtroppo, assunto le forme di una realtà parallela avulsa dal “reale” sistema-Paese. Sembra, anzi, che esso risponda solo a logiche sostanzialmente autoreferenziali e difficilmente comprensibili dall’esterno come anche, in qualche caso, dal suo stesso interno.
Questo mondo esercita tuttavia anche un fascino particolare, temibile a volte, proprio perché il circuito processuale esprime, attraverso la sua capacità punitiva o di giudizio, la forza dello Stato, a cui si contrappone il singolo che attua la sua difesa privata con i mezzi e con le sole risorse economiche di cui dispone, contando così sulla possibilità di vedere tutelati i diritti invocati in esito a un percorso giudiziario spesso tutt’altro che breve e lineare.
La frase apposta nelle aule di Giustizia “la legge è uguale per tutti, la Giustizia è amministrata in nome del popolo”, che viene letta spesso stancamente da chi rimane in un aula di Tribunale per giornate intere, esprime una forza democratica che non ha eguali nella storia del pensiero libero. La Giustizia, con la G maiuscola, rappresenta in sostanza uno dei pochi momenti nella vita di un paese in cui lo Stato, rappresentato dalle diverse figure quali il Giudice, il Pubblico Ministero e i vari funzionari amministrativi entra in contatto diretto con il privato, con il cittadino e con il mondo professionale e, segnatamente, gli avvocati.
“ Oggi il Paese ha proprio bisogno di recuperare in tutti i settori lo stesso spirito di servizio, questa spinta nobile di chi svolge una qualsiasi pubblica funzione senza altri obiettivi che quello di adempiere al proprio dovere”. Queste le parole del Guardasigilli in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario tenutasi lo scorso gennaio. Un richiamo che, pur inserito in un ampio discorso che ha anche toccato in modo alto temi assai importanti, porta a chiedersi se il monito del Ministro non rischi di diventare l’ultima linea di difesa di un sistema che ha perso di vista il proprio limite strutturale, oltre cui non può più offrire un servizio di qualità ai cittadini.
Occorre quindi porsi il problema di come realizzare un modello di Giustizia che possa essere garantista verso i diritti dei cittadini e al contempo efficiente, e soprattutto occorre rendersi conto di qual è il “limite di carico” oltre il quale il sistema non può più offrire un servizio qualitativamente e quantitativamente accettabile, nel rispetto di questi parametri.
In realtà, senza volere scomodare un semplicistico approccio sociologico, si potrebbe riflettere sul fatto che gli italiani appaiono propensi alla facile instaurazione delle vertenze legali, sino ad arrivare ad affermare che la Giustizia ha avuto la funzione di una sorta di ammortizzatore sociale dei conflitti. Il che potrebbe trovare conferma nei numeri enormi del contenzioso espressi dal ministero: circa cinque milioni di processi pendenti.
Come allontanarsi quindi dal “limite di carico”?
In ambito civilistico la recente introduzione della mediazione obbligatoria, preventiva alla causa, pur con tutte le feroci opposizioni che ha subito, esprime un approccio pragmatico al problema del numero dei procedimenti. Se attuata correttamente, con le garanzie per la migliore difesa dei diritti, potrebbe portare ad uno snellimento delle vertenze. È quindi una strada da perseguire.
Lo stesso dicasi per la semplificazione dei riti civili, così da rendere omogeneo il processo civile.
La Giustizia penale soffre di altri mali e uno di questi insiste nel fatto che in questi ultimi decenni si è fatto ricorso in modo spesso eccessivo all’uso della sanzione penale, sino a giungere a una sorta di modello “panpenalistico”, tanto che ora a fronte delle estesissime fattispecie di reato vigenti, in qualche modo, per paradosso, mette tutti nelle condizioni di rischiare la commissione di reati.
Occorre in proposito ricordare che, se portata a tutelare anche valori non primari della società, la sanzione penale non produce una reale efficacia preventiva rispetto alla commissione di reati, né tantomeno configura introiti per lo Stato, che avrebbe invece più facilità a recuperare le sanzioni economiche comminate in sede amministrativa.
Senza che il discorso ci porti troppo lontano, certamente una depenalizzazione potrebbe ricondurre la sanzione penale nell’alveo della tutela dei diritti primari della società e perdere così l’eco di uno Stato debole che esprime la sua - inefficace - forza tramite precetti di natura penale, come invece si è troppo spesso verificato negli ultimi anni.
Quale senso ha per esempio punire penalmente l’omesso versamento dei contributi previdenziali o la semplice mancata manutenzione degli estintori? Non avrebbe maggiore deterrenza una sanzione amministrativa, magari di rilevante valore patrimoniale?
Il modello di Giustizia deve rifuggire da ogni espressione di eticità, ma offrire nel rispetto della legge un servizio ai cittadini che ad essa si rivolgono. Ciò anche e soprattutto mediante un modello organizzativo efficiente, come frequentemente invocato nelle varie cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario che si stanno celebrando in questo periodo. Anche il Guardasigilli ha richiamato l’attenzione sulla necessità di “rendere il magistrato capace di organizzare al meglio i propri uffici”.
Ma sul punto è logico chiedersi il senso dell’attribuzione agli stessi magistrati dei compiti di organizzazione degli uffici giudiziari: può un magistrato anche essere un manager e gestire il lavoro dei colleghi e degli uffici? Non è invece giunto il momento di introdurre nuove figure professionali con funzioni organizzative che possano concorrere alla gestione degli uffici giudiziari? Non potrebbe essere questo un modo per iniziare ad agire sull’organizzazione amministrativa della Giustizia in modo che essa possa davvero offrire risposte qualitativamente adeguate e in tempi rapidi?
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