Quanto dell’immagine diffusa che si ha dei conflitti mediorientali si basa sulla documentazione di operazioni militari e quanto è costruita attraverso la narrazione dei media?

 

Da queste stesse colonne un mese fa si scriveva di come “il Medio Oriente dei prossimi mesi e anni sarà sicuramente molto diverso da quello sino ad oggi conosciuto dall’Occidente. Da un lato, le linee di frattura legate alla questione curda che interessano Iraq, Turchia, Iran e Siria saranno centrali nel determinare nuovi equilibri e (potenzialmente) nuovi conflitti. Dall’altro lato, non è chiaro chi potrebbe evitare che la situazione degeneri”. Proprio rispetto al pericolo di degenerazione, nell’articolo si sottolineava il peso delle scelte future di Stati Uniti e Russia e, oggi, di fronte agli scontri violenti scatenati a Gaza a seguito dell’inaugurazione dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme non possiamo che rafforzarci in questo pensiero.

In questo nuovo articolo, tuttavia, ci si focalizzerà su un aspetto che sta avendo un peso significativo nell’evoluzione della situazione mediorientale: il ruolo dei media internazionali e della manipolazione dell’informazione sui fatti di sicurezza internazionale.

Con riferimento al peso dell’informazione, il mese scorso l’attenzione mediatica è stata monopolizzata dall’episodio del presunto ricorso alle armi chimiche in Siria e dalle minacce di guerra che ne sono derivate. Oggi, come spesso succede, la notizia è quasi scomparsa dai media, sostituita da nuove notizie e allarmi, ma non essendo questo il primo caso in cui i media svolgono un ruolo importante di sostegno all’interventismo militare occidentale, è doveroso ricostruire l’episodio “a mente fredda” e cercare di inquadrarlo nell’attuale contesto geopolitico internazionale:

  • Domenica 8 aprile inizia a circolare sui maggiori canali informativi occidentali la notizia di un presunto attacco chimico da parte delle truppe lealiste siriane nell’area di Douma, a est della capitale Damasco. Il numero delle presunte vittime varia da fonte a fonte. L’opinione pubblica internazionale si compatta contro il regime di Assad, ritenuto colpevole di aver ordinato l’attacco, e da più parti si auspica una reazione (militare) da parte degli Stati Uniti.
  • Dopo alcuni giorni, il 13 aprile, il Presidente Trump, ordina attacchi aerei in Siria contro tre obiettivi (un centro di ricerca scientifico vicino a Damasco, presumibilmente collegato alla produzione delle armi chimiche; un deposito di armi chimiche a Homs; un posto di comando nei pressi della capitale) ottenendo la collaborazione anche del Regno Unito e della Francia. In totale sembra siano stati condotti circa 100 attacchi, ma report russi e siriani parlano di un terzo dei missili abbattuti dalle locali difese aeree.
  • Negli stessi giorni si moltiplicano le posizioni di quanti mettono in dubbio che l’attacco chimico sia veramente stato compiuto e, nel caso attacco vi sia stato, che sia stato portato a termine dal regime
  • Il 21 aprile, dopo ritardi dovuti alla necessità di garantire la loro sicurezza, gli ispettori dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (OPAC) riescono ad analizzare i luoghi nella città siriana di Douma dove il 7 aprile si sarebbe svolto l’attacco chimico che ha ucciso decine di persone e non manca chi sospetta che nei giorni intercorsi l’area sia stata ripulita
  • Ancora oggi non è possibile dire con assoluta certezza come si sia svolto l’attacco (probabilmente con bombe al cloro), se sia stato compiuto dal regime di Assad o, come sostengono Russia e Assad stesso, dai ribelli come “messa in scena”.

Se da un lato Assad ha già usato in passato armi chimiche è vero che anche i ribelli hanno impiegato in passato il gas per le loro operazioni belliche. L’arsenale chimico di Assad avrebbe dovuto essere smantellato nel corso del 2013 quando la Russia, per evitare l’intervento americano, si era fatta garante dell’operazione che si era conclusa positivamente. Quello dei ribelli non è noto e va anche detto che, da diverso tempo, armi chimiche sono a disposizione di vari gruppi irregolari in Medio Oriente (per esempio i gruppi dell’insorgenza irachena che iniziarono a impiegare bombe al cloro nel 2006).

E anche dal punto di vista delle motivazioni si possono trovare posizioni a sostegno di entrambe le ipotesi:

  • Alcuni commentatori ed esperti ritengono che il bombardamento non sia stato condotto dalle truppe del regime perché Assad ha ormai vinto la guerra e non avrebbe avuto alcun interesse a provocare con un attacco chimico la reazione statunitense. Secondo questa interpretazione, sebbene la Siria non sia pacificata e moltissime questioni, anche cruciali, siano ancora da risolvere, l’appoggio fornito ad Assad da Iran e Russia avrebbero ormai spostato gli equilibri del conflitto a favore del regime. Poco prima dell’attacco a Douma, per esempio, Assad era riuscito a liberare dai ribelli l’ultima roccaforte nei pressi di Damasco, Ghouta Est. L’evacuazione dell’area era avvenuta dopo giornate di trattative sostenute dalla Russia che era riuscita a far sì che i ribelli abbandonassero le armi pesanti e le loro posizioni per ottenere un corridoio al fine di raggiungere la città difesa dai ribelli di Jarablus.
  • Altri commentatori sostengono che l’esercito di Assad sia fortemente indebolito da anni di guerra e dalle diserzioni e che proprio la carenza di uomini e risorse avrebbe spinto il regime a impiegare il gas come “scorciatoia” per liberare una zona abitata altrimenti difficilmente espugnabile. Altri, pur ritenendo che la responsabilità sia del regime, legano l’attacco al fatto che nei giorni precedenti l’attacco i lealisti stessero conducendo operazioni contro i ribelli per conquistare l’area, obiettivo poi raggiunto pochi giorni dopo.

Quello che è certo è che le nostre società sono oggi fortemente esposte all’influenza dei media e della loro capacità di indirizzare ampi settori dell’opinione pubblica. Questo, indipendentemente dal fatto che le notizie siano sempre vere e verificate. Le fake news non sono purtroppo una novità, ma se applicate con intenzionalità ai temi della sicurezza internazionale possono avere effetti dirompenti. Il caso dei falsi video messi in rete con riferimento alla Siria è emblematico ma non è il solo. Un altro caso molto “famoso” è indubbiamente quello del 2003 in cui Colin Powell, all’epoca segretario di Stato, si presentò al Consiglio di Sicurezza dell’ONU con una fialetta contenente della polverina bianca sostenendo che fosse antrace. Powell affermò che il regime di Saddam fosse in grado di produrre e usare quella sostanza e che per questo fosse necessario agire il prima possibile. Il mese successivo sarebbe quindi scoppiata la guerra in Iraq, salvo poi scoprire che i programmi legati alle armi chimiche di Saddam fossero stati abbandonati a metà anni Novanta. Famoso anche il caso di manipolazione dell’informazione legato alla soldatessa americana Jessica Lynch, rapita dagli iracheni a Nassirya e liberata attraverso un blitz nell’aprile 2003, ma falsamente promossa dal governo americano come eroina di guerra. Ma esempi importanti possono essere documentati anche in precedenza, prima ancora che nascesse ufficialmente il World Wide Web, oggi canale privilegiato di diffusione delle fake news.

Uno di questi risale infatti al 1989, anno in cui stava chiudendosi la Guerra fredda. Nel dicembre di quell’anno scoppiarono delle rivolte in Romania contro il regime di Ceausescu, tra le notizie che filtrarono dal Paese si diffuse, anche sulla stampa italiana, quella di uccisioni di massa nella città di Timisoara. Malgrado nella zona non ci fossero giornalisti, come oggi spesso capita dal fronte siriano, la notizia venne pubblicata e gli viene data ampia diffusione, tanto che si parlò addirittura di documenti del regime intercettati che elencavano migliaia di morti. Emersero poi anche foto e report dalla città che descrivevano con minuzia di particolari le terribili ferite inferte e le cataste di cadaveri. Poi, con la morte del dittatore, la notizia quasi scomparve e solo nella primavera successiva si venne a sapere che quei cadaveri erano in realtà di persone precedentemente sepolte nel cimitero locale e le ferite altro non erano che i segni dell’autopsia. A Timisoara gli scontri ci furono ma le vittime si limitarono a qualche decina, molte meno di quelle all’epoca documentate dai media.

Un secondo evento accadde prima della guerra del Golfo del 1991, quando venne fatta circolare la notizia che i soldati iracheni, che avevano occupato il Kuwait, stavano uccidendo i bambini nelle incubatrici dell’ospedale della capitale. La notizia indignò il mondo e indubbiamente aiutò gli Stati Uniti a compattare l’alleanza che avrebbe di lì a poco liberato il Kuwait, ma era del tutto falsa: si basava infatti su un racconto di una testimone che era la figlia dell’ambasciatore del Kuwait a Washington e che non era neppure in patria in quei giorni.

Questi e altri casi simili ammoniscono rispetto a un utilizzo eccessivo e troppo invasivo dei media, che spesso funzionano come cassa di risonanza per attori interessati e su notizie non sempre vere o verificate. Difendersi non è facile, ma cominciare a documentare i casi “svelati” di manipolazione e propaganda mediatica (sull’ipotesi Russiagate si sta ancora dibattendo e investigando, ma è anche questo certamente un caso “scuola”) possono essere un primo passo verso la costruzione di una maggiore consapevolezza.