L'università italiana si sta estinguendo, non ne esiste alcuna fra le prime 100 università del mondo. Le tante riforme che hanno interessato l'istruzione universitaria hanno avuto esiti devastanti spingendo le nostre università lungo una china fatta di progressivo scadimento della qualità dell'offerta formativa. Una politica demagogica e impreparata indebolisce da anni l'università italiana pur continuando indefessa a blaterare dell'importanza di formazione e ricerca nelle moderne economie fondate sulla conoscenza.
L'Università italiana è in avanzato stato di estinzione. Nelle graduatorie internazionali sta scomparendo, non se ne trova alcuna tra le principali cento al mondo; ma neanche tra le principali venti in Europa. Se si consulta la classifica di Webometrics degli atenei del mondo, che raccoglie dal 2004 su basi regolari la classifica delle prime 4.000 Università del mondo, dopo innumerevoli stars and stripes, diverse piccole Union Jack, qualche tricolore francese e un certo numero di vessilli tedeschi, si scorge finalmente un tricolore bianco rosso e verde al 68° posto. Peccato che sia l'Universad Nacional Autonoma de Mexico. 
La prima italiana, Bologna, appare al 114° posto. Era la prima a cavallo fra il XIII e il XIV secolo. La seconda, l'Università di Pisa, è al 191° posto. La terza è La Sapienza di Roma al 282° posto. L'Università di Milano e di Torino stanno appaiate al 343° e al 344° posto. 

Tante riforme...
Il sistema universitario italiano è stato profondamente modificato da sinistra con la riforma Berlinguer e da destra con le iniziative del ministro Moratti. 
Pietro Citati e larga parte della più autorevole cultura italiana hanno a più riprese parlato di vera e propria "catastrofe", di una sorta di calamità naturale, per definire gli esiti che queste iniziative hanno avuto sulla capacità, attuale e prospettica, di formare e selezionare la classe dirigente del Paese. 
Le riforme hanno introdotto il sistema modulare di istruzione 3+2 e vertono sull'esigenza di "superare il diritto allo studio" e garantire il "diritto al successo formativo" proponendo un concetto di "università di massa" illusorio, impregnato di un egualitarismo mistificante. 
I propositi di riforma erano indirizzati ad aumentare il numero di laureati (a ridurre la cosiddetta "mortalità universitaria", gli abbandoni e il numero degli studenti fuori corso) e a rendere il sistema universitario italiano maggiormente compatibile con quello degli altri paesi europei. Quali gli esiti? È ormai riconosciuto da più parti come l'obiettivo di avere qualche laureato in più abbia comportato un vertiginoso abbassamento della qualità complessiva dell'offerta formativa universitaria, la rinuncia all'applicazione di criteri selettivi di merito e, nel complesso, l'abdicazione dalla missione di preparare e formare una classe dirigente culturalmente consapevole. Per laureare più studenti l'Università italiana ha avviato e sta percorrendo la strada del progressivo abbassamento qualitativo a tutto danno del merito, della selettività, delle competenze reali, della competitività internazionale. 
Il combinato disposto degli interventi legislativi ha portato infatti a una significativa riduzione dei carichi di studio, a una frammentazione dei corsi di laurea – che nel biennio assume le proporzioni di una gemmazione incontrollata di lauree specialistiche e master – a una moltiplicazione pletorica di esamini (il numero di esami è triplicato rispetto al passato) che tende ad atomizzare e spezzettare l'iter universitario. I carichi di studio si sono dimezzati attraverso l'applicazione - sancita tramite circolare ministeriale - di un meccanismo di aberrante corrispondenza fra crediti formativi e ore di studio, che assegna ad ogni credito 25 ore di studio da cui vanno dedotte le ore di lezione (circa 8 per ogni credito), corredato a sua volta da una serie di coefficienti che trasformano le ore di studio in pagine di testo da studiare. 

... tutte sbagliate
Il risultato è stato quello di avere un po' più di giovani in possesso di un titolo universitario con una preparazione molto più scadente rispetto al passato. È stato come attuare una politica di riduzione della povertà limitandosi ad abbassare per legge la soglia che qualifica lo stato di povertà. 
Gli stessi studenti percepiscono assai bene la dequalificazione in atto e non ne sono affatto entusiasti. Essi sono i primi a riconoscere che il corso di tre anni non serve a niente: dopo tre anni, lo studente non sa quasi nulla, non può insegnare nelle medie e nei licei, ha basse probabilità di trovare un'occupazione minimamente qualificata, può solo continuare a perpetrare un percorso di studi scadente. Per queste ragioni – e contrariamente alle intenzioni dei legislatori – il percorso di studi, invece di ridursi, si è addirittura allungato, inutilmente e costosamente (sia per il portafoglio pubblico che per quello privato), a tutto detrimento, tra l'altro, delle classi meno abbienti e del ricambio sociale. 
Una spirale al ribasso che ha effetti devastanti, contribuendo ad esempio al progressivo esaurirsi, nella stessa coscienza collettiva, della convinzione che la cultura, l'istruzione, la formazione siano i più autentici strumenti di promozione sociale. Viviamo in un Paese in cui i massimi abbandoni scolastici si registrano nel nord est, l'area più ricca e "moderna" del paese. 

Una politica demagogica e culturalmente impreparata 
La demagogia sull'università di massa, che verte sul principio solo apparentemente egualitario del diritto al successo formativo ha, almeno finora, prevalso sulla necessità, seria e urgente, di intervenire sulla qualità della formazione, sulla sua selettività, sulla sua effettiva capacità di creare pari opportunità lungo un percorso di studi superiori tanto serio e rigoroso da essere meritocratico e premiante. La cultura dominante del Paese, fortemente segnata, tanto a destra quanto a sinistra, da forti tradizioni propense più al paternalismo assistenzialista e corporativo che a al riconoscimento del merito, delle competenze e dell'impegno individuale, non sembra accettare il modello autenticamente liberale, secondo cui lo Stato deve garantire ai cittadini la possibilità di far valere i propri talenti indipendentemente dal censo. Cosa ben diversa dall'imposizione di una indiscriminata parità nei risultati di arrivo come intesa nei fatti dall'estensione del diritto al successo formativo avvenuta nell'università. 
Tutti i governi che si sono succeduti in questi anni hanno a più riprese parlato della centralità di ricerca e formazione quali fattori di competitività fondamentali nell'economia della conoscenza, sottolineando la crescente complementarietà fra capitale fisico e capitale umano nelle moderne funzioni di produzione. 
Ebbene, la centralità della formazione e della ricerca presuppone una consapevolezza dell'importanza, dell'assoluto valore strategico di questi temi per l'avanzamento economico e sociale del Paese. Tale consapevolezza deve incoraggiare a intraprendere un'analisi critica delle debolezze del sistema educativo nel suo complesso e del sistema dell'istruzione universitaria in particolare e al contempo deve mirare a scoraggiare qualunque tentazione di cedere alle sole formulazioni retoriche di cui l'economia della conoscenza è spesso intrisa. Ma questo tipo di consapevolezza è ancora lontana dal pervadere larghi settori della nostra classe politica, incapace delle scelte più difficili, anche se più necessarie. 
Il blaterare della classe politica sulla formazione, la conoscenza, il capitale umano, i talenti, i "cervelli italiani" — che raggiunge il suo apice grottesco in occasione dell'annuale appuntamento del Nobel soprattutto quando i premiati possono contare su discendenze italiche peraltro sempre più "stiracchiate" — è davvero un teatrino pietoso recitato da attori fuori ruolo, che da anni steccano la parte.