La procura di Taranto, in data 27 dicembre 2012, ha trasmesso un ricorso contro il decreto legge 207, il “Salva Ilva”. Secondo i magistrati, il governo avrebbe di fatto interferito con le indagini in corso per disastro ambientale, con cui si è arrivati, il 26 luglio scorso, al sequestro degli impianti dell’area a caldo dell’Ilva di Taranto.
Il decreto legge incriminato, già convertito in legge il 20 dicembre, ma non ancora pubblicato dalla Gazzetta ufficiale, è stato firmato dal Capo dello Stato il 3 dicembre scorso e contiene “disposizioni urgenti a tutela della salute, dell’ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale”. Il decreto, di fatto, permette allo stabilimento di Taranto di continuare a produrre e a commercializzare, nonostante sia stato deciso il sequestro giudiziario. Si preannuncia, dunque, una contesa giudiziaria dai tempi non prevedibili, ma certamente lunga e tale da creare sul futuro dello stabilimento e della stessa società Ilva una pesante incertezza. Ci sarebbe modo di evitarlo?
1. L’Ilva in pillole. L’Ilva nasce ai primi del Novecento sulle ceneri dell’Italsider. Oggi è una società per azioni del Gruppo Riva che si occupa prevalentemente della produzione e trasformazione dell’acciaio, costituendo una delle più grandi acciaierie d’Europa e la più grande d’Italia. Il suo più importante stabilimento è situato a Taranto e rappresenta il più imponente polo industriale per la lavorazione dell’acciaio in Europa. L’Ilva possiede altri stabilimenti che sono situati a Genova, Novi Ligure, Racconigi, Marghera, e Patrica. Per quel che riguarda lo stabilimento di Taranto, questo è stato costruito nel 1961 a ridosso di due popolosi quartieri della città e nel 1995 è stato rilevato dal gruppo privato Riva che lo ha riportato a una gestione di profitto: oggi produce circa 10 milioni di tonnellate l’anno di acciaio. La scelta, a dir poco discutibile, di costruire uno stabilimento di questo tipo in pieno centro urbano rappresenta l’immagine tangibile di una stagione connotata dalla vocazione allo sviluppo industriale, un periodo storico in cui non si dava particolare rilievo né, da un lato, ai problemi di salute della forza lavoro e dei cittadini né, dall’altro, alle ripercussioni della produzione a livello ambientale. Secondo le perizie del tribunale e le dichiarazioni stesse dell’Ilva, nel 2010 sono state immesse nell’ambiente 4.159 tonnellate di polveri, 11 mila di diossido d’azoto e anidride solforosa, oltre ad anidride carbonica, arsenico, cromo, cadmio, nichel, piombo e numerosi altri materiali dannosi per la salute e l’ambiente. La perizia epidemiologica condotta sul caso Ilva termina con un’affermazione drammatica che non rende neppure in maniera esaustiva la reale situazione dell’area ionica e che così recita: “l’esposizione continuata agli inquinanti dell’atmosfera emessi dall’impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell’organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte”. Le malattie collegate con evidenza scientifica alle emissioni del siderurgico sono le patologie cardiovascolari, quelle respiratorie, i tumori della laringe, del polmone, della pleura, del tessuto connettivo, le leucemie, malattie neurologiche e renali, i tumori dello stomaco tra i lavoratori del complesso siderurgico e altre ancora. Le indagini dei carabinieri del nucleo operativo ecologico segnalano che potrebbero essere stati commessi diversi reati, dal disastro ambientale colposo, alle omissioni di cautele contro gli infortuni sul lavoro, fino al danneggiamento di beni pubblici e al versamento di sostanze pericolose. Il 26 luglio scorso è quindi scattato il sequestro dell’area a caldo dello stabilimento, ma tale azione è giunta piuttosto in ritardo: che lo stabilimento inquinasse era noto da anni e, peraltro, i Riva erano già stati indagati precedentemente, nel 2007, per aver violato le norme contro l’inquinamento. Dunque il problema era sotto gli occhi di tutti ma non è stato affrontato. Perché? Secondo l’inchiesta, l’azienda ha disperso sostanze nocive nell’ambiente provocando malattie e morte e, pur conoscendo gli effetti delle emissioni, ha continuato a inquinare con coscienza e volontà seguendo una pura logica di profitto.
2. Sul concetto di responsabilità di impresa. Esiste un paradosso di fondo tra il fatto che mai come nei nostri anni si è scritto e parlato di etica d’impresa, di responsabilità sociale dell’impresa e contemporaneamente mai si è visto un susseguirsi tanto impressionante di casi di imprese dai comportamenti gravemente irresponsabili. Per quanto riguarda l’impatto ambientale, per esempio, l’Ilva non è certo la sola a poter essere considerata irresponsabile: in tutta Italia, sono circa una ventina gli impianti che non hanno ancora ottenuto l’Aia, ossia l’autorizzazione integrata ambientale. Possiamo definire come irresponsabile un’impresa che, al di là degli elementari obblighi di legge, suppone di non dover rispondere ad alcuna autorità pubblica e privata, né all’opinione pubblica, in merito alle conseguenze in campo economico, sociale e ambientale delle sue attività (Luciano Gallino, L’impresa irresponsabile, Torino: Einaudi, 2005). Da questa definizione è possibile allora dedurre anche quella di impresa responsabile, intendendo con questo termine l’impresa che, oltre ad osservare le leggi, risponde con convinzione alla collettività del suo operato, dei suoi obiettivi e dei suoi risultati. Le imprese rappresentano, o meglio, dovrebbero rappresentare, organi della società mai fini a sé stessi: come sostiene la moderna teoria d’impresa, esse dovrebbero esistere per svolgere una determinata funzione sociale, essere strumenti per assolvere fini che le trascendono (P.E. Drucker, Manuale di Management, Milano: ETAS 1978). Sulla base di quanto detto, la responsabilità dell’Ilva è duplice: da un lato è responsabile del proprio impatto ambientale in termini di territorio, salute dei cittadini e dei lavoratori; dall’altro in termini sociali, come produttrice di profitto e di lavoro per la popolazione stessa. Chiudendo lo stabilimento il problema dell’impatto ambientale almeno per il futuro sarebbe risolto; non così quello della perdita di posti di lavoro. Come affronta questi temi l’azienda? I dirigenti dell’Ilva sostengono di aver già agito per ridurre le emissioni presentando un piano, che è stato tuttavia successivamente respinto dai magistrati, con la previsione di investimenti per circa 400 milioni di euro in funzione dell’abbattimento delle polveri e della copertura dei depositi di carbone che ora sono a cielo aperto, chiedendo comunque di continuare a produrre, anche se in maniera ridotta. La magistratura ha bocciato il piano sostenendo che continuare la produzione avrebbe significato continuare a infliggere danni alla popolazione. L’Ilva oggi produce un terzo del fabbisogno di acciaio italiano e dà lavoro a 12.000 lavoratori diretti, che diventano 40.000 se consideriamo l’indotto. Sono cifre importanti che spiazzano di fronte alle decisioni da prendere. Governo e sindacati spingono per evitare la chiusura della fabbrica e, in questo senso, mostrano di considerare prevalente la responsabilità sociale dell’impresa nei confronti del posti di lavoro che in caso di chiusura andrebbero persi, a scapito però della responsabilità nei confronti dell’ambiente e della salute dei cittadini. Si è così cercato un compromesso: tenere aperto e produttivo lo stabilimento favorendone il risanamento tramite uno strumento, cui accennavamo prima, l’Aia, ossia l’autorizzazione integrata ambientale. Tale strumento autorizza l’utilizzo dell’impianto a patto però che l’azienda attui una serie di interventi distribuiti nell’arco di tre anni che prevedano la riduzione della produzione in maniera significativa, la copertura dei parchi di carbone, l’ammodernamento degli altiforni e monitoraggi costanti. Tuttavia, secondo gli esperti, gli effetti positivi di questi provvedimenti si vedrebbero solo a partire dal 2015 e il costo totale degli stessi si aggirerebbe intorno ai tre miliardi cui lo Stato contribuirebbe per 330 milioni.
3. Come si è detto, la vicenda è tutt’altro che conclusa: il governo ha imposto tramite decreto l’attuazione degli interventi e l’esecuzione dell’Aia, ma i magistrati hanno, di contralto, presentato ricorso. Viene dunque da chiedersi se esista una soluzione accettabile al problema. Occorre forse guardare agli altri Paesi, a come hanno affrontato annose questioni circa la responsabilità di impresa e l’impatto di questa sul territorio. La Germania, in questo senso, può essere d’esempio: diverse acciaierie tedesche hanno introdotto misure volte a ridurre il loro impatto ambientale ottenendo dei buoni risultati, con riduzioni delle emissioni del 70 per cento, in taluni casi persino del 90 cento, e comunque ben inferiori a quelle dell’Ilva. Dunque inquinare meno e, di conseguenza, produrre con maggiore responsabilità si può, ma per fare questo sono necessari investimenti ingenti finalizzati all’adozione di tecnologie pulite che, peraltro, impatterebbero in maniera positiva anche in termini di nuova occupazione. Il problema pertanto è a monte: al di là della ormai scontata retorica circa la logica del profitto imputata ai dirigenti Ilva, è paradossale rilevare che quei tre miliardi da spendere per rimediare agli ingenti danni compiuti avrebbero potuto essere più proficuamente spesi, in passato, nell’ottica dell’investimento in tecnologie che guardano all’ambiente e alla salute. A monte vi è, inoltre, un problema di presa di coscienza da parte dell’impresa della propria responsabilità in termini di azioni compiute. Un’impresa non dovrebbe solo tendere a massimizzare i profitti: questo è un errore, oltre che dal punto di vista etico, anche da un punto di vista prettamente manageriale. Non è un caso infatti, come sostengono i teorici di impresa, che le aziende il cui unico obiettivo sia il perseguimento del profitto fine a se stesso vadano più o meno rapidamente incontro a crisi e abbiano un basso livello di sopravvivenza a lungo termine. L’impresa sana è quella che, contemporaneamente, è corretta dal punto di vista etico e realizza l’armonica compenetrazione di tre processi di accumulazione: accumulazione della conoscenza tecnologica, accumulazione della conoscenza organizzativa e, di conseguenza, accumulazione del capitale. Questi processi sono alimentati dalla continua ricerca di innovazioni sotto il profilo tecnico, organizzativo e culturale. In questo senso, il manager che non sa, o non vuole, o non può tenere conto in modo equilibrato dei vari interessi che confluiscono nell’impresa non è un manager poco etico, ma semplicemente è un cattivo manager, conclusione alla quale giunge, in convergenza e ampiamente, la teoria manageriale. Ad oggi, la soluzione “tampone” adottata dal governo per cercare di porre rimedio alla situazione appare, tristemente, la più convincente. Senza dubbio è necessario ripensare il concetto di responsabilità nei termini in cui qui si è cercato di esprimerlo, incentivando quelle aziende che si spingono in tale direzione e sanzionando, al contrario, coloro che attuano comportamenti divergenti, con un occhio alle buone pratiche adottare dagli altri Paesi e scrivendo leggi non dettate dall’emergenza bensì capaci di spingere le imprese ad acquisire un senso di responsabilità reale: responsabilità nei confronti di un territorio, di una popolazione e, non da ultimo, di loro stesse. Insistere sull’assunzione di responsabilità di impresa è, infatti, nell’interesse dell’impresa stessa: un’impresa che si pone in quest’ottica è un’impresa più capace di resistere nel tempo ed è, altresì, eticamente corretta perché veicola lo sviluppo, assolvendo alla sua funzione sociale. Nel fare questo realizza, come sostiene l’economista Peter Drucker, i fini che la trascendono, ovvero crea valore reale per tutti, oltre che per se stessa.
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