Negli ultimi anni l’area del Mediterraneo è stata scossa da una serie di crisi politiche che ne hanno profondamente alterato la stabilità e l’equilibrio. In questo quadro la Russia ha iniziato a giocare un ruolo sempre più importante, invertendo una tendenza consolidatasi dalla fine della Guerra Fredda e che la vedeva quasi del tutto estromessa.
Specialmente dopo le cosiddette Primavere Arabe, la Russia ha iniziato a intervenire in modo pervasivo nell’area del Mediterraneo sfruttando due situazioni concomitanti.
La prima è il caos politico che è seguito a quelle “rivoluzioni”. Da un lato esse hanno condotto a una ricomposizione delle classi dirigenti che, come in Egitto, si sono dimostrate più sensibili al richiamo di Mosca; dall’altro hanno aperto conflitti, anche molto sanguinosi che, come in Libia e in Siria, oltre a minacciare direttamente gli interessi russi, hanno schiuso nuove possibilità per creare alleanze e contatti politici.
La seconda situazione è il fatto che la Presidenza Obama si è dimostrata impreparata a gestire i conflitti, adottando una politica poco lineare e a volte in deciso contrasto con il passato. Questo aspetto è centrale perché così facendo gli Stati Uniti hanno favorito l’allontanamento di alcuni storici alleati e aperto spiragli e spazi diplomatici a potenze esterne prima di allora assolutamente impensabili.
Nel caso della Russia, la rinvigorita politica del Cremlino verso la regione del Mediterraneo va inserita in un contesto più ampio di alleanze regionali che Mosca sta intessendo nel tentativo di guadagnare terreno e porsi a livello internazionale come un credibile partner politico ed economico. In questo quadro si spiegano le recenti visite di fine agosto del ministro degli esteri Lavrov in vari Paesi dell’area del Golfo Persico. Un’area che, storicamente, è sempre stata dalla parte di Washington, ma che negli ultimi anni, anche a seguito della crisi diplomatica che si è venuta a creare con il Qatar, ha aperto spiragli per altri attori. Lavrov ha prima visitato il Kuwait, gli Emirati Arabi Uniti e, infine, il Qatar, dove ha espresso il sostegno di Mosca agli sforzi di mediazione del Kuwait.
Sempre lungo questa linea di azione vanno inserite le visite di Lavrov di inizio settembre in Arabia Saudita e in Giordania, in occasione delle quali, nuovamente, la Russia ha sostenuto la necessità del dialogo tra le parti. L’obiettivo russo è sì quello di risolvere la crisi attraverso negoziati tra tutte le parti coinvolte, ma anche di rafforzare, in questo quadro piuttosto fluido, i legami economici e politici tra il Qatar - dove, bisogna ricordarlo, gli Stati Uniti hanno costruito una base centrale per le loro operazioni militari nella regione - e la Russia. Non a caso nei suoi incontri Lavrov ha anche sottolineato il desiderio della Russia di avere una maggiore cooperazione con il Qatar nei settore degli investimenti economici e, soprattutto, nel settore del petrolio e del gas.
Un altro tassello fondamentale di questa politica russa è l’Iran. A seguito della crisi siriana, Teheran e Mosca si sono trovate sempre più a condividere visioni comuni sul futuro del Paese. Le ragioni geopolitiche di questo avvicinamento sono diverse e in futuro potrebbero anche diventare confliggenti, ma per il momento l’alleanza sembra forte e consolidata. Sin dalla scorsa estate bombardieri russi hanno operato da basi iraniane per colpire obiettivi in Siria. Il fatto, che aveva suscitato diverse polemiche e reazioni diplomatiche, è sintomatico di una comune visione di intenti. Non è, inoltre, un segreto che, nel suo intervento in Siria a difesa di Assad, la Russia appoggi gruppi di Hezbollah con Forze Speciali e aviazione. Un ulteriore elemento di rafforzamento di questa alleanza sono le esercitazioni congiunte tra Iran e Russia portate a termine a luglio tra le rispettive marine sul Mar Caspio. Durante le esercitazioni un distaccamento della flotta russa del Caspio ha visitato il porto iraniano di Anzali, la quinta visita negli ultimi dieci anni.
Con la caduta di Saddam Hussein nel 2003 l’Iran ha inoltre ampliato e radicato la sua influenza sull’Iraq. Teheran non solo ha estesamente supportato militarmente ed economicamente i gruppi para-militari sciiti, prima contro gli Stati Uniti, poi contro i sunniti e, infine, contro i miliziani dello Stato Islamico, ma ha anche forti legami con ampi settori della classe dirigente sciita irachena, che è da anni alla guida del Paese, e il cui maggiore esponente è indubbiamente l’ex primo ministro, ora vice-presidente, Nuri al-Maliki.
Proprio Nuri al-Maliki è stato in visita a Mosca all’inizio di agosto chiedendo una presenza più visibile della Russia nel Paese. Russia e Iraq, che in passato avevano già stipulato accordi commerciali legati all’acquisto di materiale militare (l’Iraq è stato un alleato dell’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda), con l’intervento in Siria e il concomitante conflitto contro ISIS, hanno anche sviluppato contatti a livello strategico e militare. Maliki ha incontrato Lavrov plaudendo al ruolo svolto da Mosca nella regione, anche se tale posizione non è condivisa dalla totalità dei politici iracheni. A conferma dell’interesse della Russia a riallacciare i rapporti con l’Iraq, il vice-presidente iracheno ha poi incontrato anche Putin a San Pietroburgo.
Una delle ragioni principali dell’incontro è stata quella di discutere le forniture di carri armati russi, in particolare il modello T-90, per un accordo di circa 1 miliardo di dollari. Benché dopo il 2003 l’esercito iracheno sia stato equipaggiato con materiale americano, molte armi e veicoli sono di produzione russa e inoltre questi ultimi hanno costi più bassi rispetto ai corrispettivi americani, il che non è un elemento di poco conto se pensiamo che l’Iraq ha un enorme debito pubblico oltre che un bisogno importante di strumenti bellici per far fronte al conflitto con lo Stato Islamico. Ma il viaggio di Maliki a Mosca potrebbe essere anche interpretato come un tentativo di portare il sostegno russo a una sua futura candidatura per le elezioni parlamentari dell’aprile 2018. La Russia, infatti, potrebbe scegliere di rafforzare la posizione di Maliki, mal visto dagli Stati Uniti specie dopo il 2014, per contrastare l’influenza americana nel Golfo Persico. A fronte della scelta di Washington di impiegare il petrolio come arma politica nella guerra energetica contro la Russia, il Cremlino potrebbe utilizzare l’intermediazione iraniana per il rafforzamento di un asse comune Mosca-Teheran-Damasco.
Il ruolo russo nel Golfo, l’alleanza con l’Iran e l’influenza in Iraq creano un quadro di insieme che permette di comprendere meglio i passi che la Russia sta facendo nella regione del Mediterraneo. Il teatro dove più è coinvolta è ovviamente la Siria, dove impiega in appoggio ad Assad l’aviazione, le truppe di terra e i mezzi navali. In Siria Putin ha scommesso, e sostanzialmente vinto, politicamente su Assad, il che gli ha permesso di perseguire una strategia A2/AD (anti-air/area denial), basata su sistemi di difesa che interdicono le capacità aeree e di penetrazione del nemico in un dato settore. Tale sistema, oltre ad esser stato applicato in modo efficace lungo i confini occidentali e in aree di interesse geopolitico come il Mar Nero, il Mediterraneo Orientale e il Medio Oriente, è anche un segnale della volontà russa di mantenere la propria presenza nel Paese per lungo tempo.
Significativa la ratifica di un accordo con il Governo siriano che consente alla Russia - che già possiede a Tartus l’unica sua base navale nel Mediterraneo, di mantenere la propria base aerea di Khmeimim nella provincia di Latakia, per 49 anni, con la possibilità di estensione dell’uso per altri 25 anni. La Russia, inoltre, sta tessendo strette relazioni con l’unico membro della NATO della regione, ovvero la Turchia. Quest’ultima, infatti, non solo è stata coinvolta nei negoziati di Astana, che pur non risolvendo il conflitto siriano, certamente hanno chiarito posizioni e permesso un miglioramento della situazione in alcune aree; ma è anche interessata all’acquisto di un sistema missilistico anti-aereo russo S-400.
La Russia poi come è noto, e come forse all’Italia interessa maggiormente, è anche impiegata in Libia in appoggio del generale Haftar che controlla la parte orientale del Paese precipitato nel caos dopo la caduta di Gheddafi. La Russia ha storici rapporti con la Libia che trovano le loro radici durante la Guerra Fredda, ha interessi economici e militari importanti maturati soprattutto nei primi anni 2000. Haftar è per Mosca un alleato naturale sia per il suo addestramento militare legato alla dottrina sovietica sia perché è appoggiato dall’Egitto, altro Paese della regione dove Putin ha saputo sfruttare i limiti della tentennante politica obamiana ed è riuscito a instaurare una collaborazione politica e militare concretizzatasi in esercitazioni militari comuni e proficui contratti per l’invio di materiale bellico.
Questo quadro seppur non esaustivo offre comunque un’idea sufficientemente precisa del forte peso politico, militare e diplomatico guadagnato della diplomazia russa nella regione del Mediterraneo e nelle aree limitrofe. Soddisfacendo le proprie ambizioni, la Russia è ormai diventata un attore centrale della nuova geopolitica del Mediterraneo ed è evidente come non possa essere lasciata in disparte per le risoluzioni di gravi crisi come quella libica.
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