Sembra non voler mai giungere a conclusione la vicenda dell’uso, da parte degli enti locali italiani, di contratti derivati per far fronte a necessità di gestione del bilancio. Nei giorni scorsi, il quadro normativo della materia è stato scompaginato dalla sentenza in cui la Corte d’appello di Milano ha assolto una serie di importanti banche internazionali dall’accusa di aver truffato il Comune di Milano con riferimento alla sottoscrizione, sotto le giunte Albertini e Moratti, appunto di strumenti finanziari di questo tipo.
1. La sentenza in questione, che ha ribaltato il pronunciamento di primo grado, sembra giungere a conclusioni condivisibili, nel mandare esenti da responsabilità i rappresentanti delle banche coinvolte, e le banche stesse, per la scelta di proporre al Comune di Milano dei contratti di cui i suoi rappresentanti vedevano i vantaggi immediati, ma con ogni evidenza non avevano compreso le implicazioni a lungo termine.
Questa decisione sembra corretta dal punto di vista dei principi perché richiama alla propria responsabilità, in una sorta di applicazione giuspenalistica del principio del caveat emptor, gli amministratori pubblici che hanno apposto la propria firma su quei contratti.
Il problema, però, è che, a differenza di un rapporto tra privati, ne vanno di mezzo i contribuenti. La sentenza dei giudici di Milano, infatti, si limita necessariamente a considerare la posizione degli imputati di quel processo, ovvero le banche e i rispettivi funzionari. Ma così facendo lascia per forza di cose inevasa la questione che sorge immediatamente: se i contribuenti abbiano subito un danno. Se non vi è stata truffa da parte degli operatori bancari, allora ne deve senz’altro seguire una responsabilità di chi quei contratti li ha firmati in nome e per conto dei contribuenti.
Nel nostro ordinamento, l’affermazione di tale eventuale responsabilità è competenza di altri giudici, in particolare di quelli contabili, per cui non è possibile alcun automatismo. Resta però sicuramente la sostanza della responsabilità politica di quegli amministratori che ricorsero a questi strumenti per i vantaggi che comportavano nell’immediato, anche se nei fatti scommettendo denaro del contribuente a lunghissimo termine.
2. È proprio questo il problema principale dei derivati: le somme su chi ha guadagnato e chi ha perso si possono tirare solo alla scadenza, in genere posta a distanza di molti anni, quando gli amministratori che li hanno sottoscritti potrebbero essere lontanissimi dalla vita politica e non (più) in grado di tenere indenni i contribuenti dei danni eventualmente procurati loro.
Verrebbe dunque spontaneo invocare delle restrizioni alla facoltà dei pubblici amministratori di sottoscrivere contratti di questo tipo, che, pur avendo una giustificazione economica del tutto solida per il debitore in termini di copertura dei rischi derivanti dall’oscillazione dei tassi, possono però comportare danni notevoli se la “scommessa” viene persa, o se il contratto contiene clausole “capestro” che rendono la sconfitta molto probabile, con in più l’aggravante di poterlo scoprire solo a distanza di molti anni.
Dal 2001 in avanti, in effetti, il legislatore italiano ha posto limiti sempre più stringenti alla facoltà per gli amministratori pubblici di ricorrere agli strumenti di finanza derivata (senza però arrivare a vietarli tout court come avviene ad esempio in Gran Bretagna).
Ciò ha determinato una maggior attenzione della giurisprudenza contabile nello scrutinio di queste condotte da parte dei pubblici funzionari, e così si è avuta con gli anni una significativa riduzione dell’esposizione del settore pubblico italiano nel suo complesso al rischio-derivati, ma ciononostante tale esposizione permane e in misura decisamente non trascurabile: un’indagine di Bankitalia ha stimato che, al 30 settembre 2012, le amministrazioni pubbliche nel loro complesso fossero esposte per perdite potenziali su derivati fino a 6,6 miliardi di euro.
Questa cifra non comprende però i veicoli creati appositamente dagli enti locali per operazioni di copertura sui debiti, per cui l’esposizione complessiva potrebbe essere sensibilmente superiore. In effetti, il Ministero dell’Economia ha a propria volta calcolato che il valore nozionale dell’esposizione di tutte le Regioni, Province e Comuni al 31/12/2012 ammontasse a quasi 23 miliardi di euro.
Più in generale, la vicenda offre una conferma della necessità di potenziare gli strumenti della responsabilità amministrativo-contabile dei pubblici funzionari: questo tipo di responsabilità, che colpisce immediatamente il portafoglio, sembra infatti essere l’unico vero deterrente efficace all’assunzione di rischi eccessivi da parte di funzionari della pa a spese del contribuente.
Di per sé, infatti, non esiste un incentivo per la politica ad astenersi da simili pratiche, che nell’immediato portano solo un beneficio alle casse pubbliche, con tutto ciò che ne consegue in termini di ritorno di immagine e consenso, ma possono comportare gravi perdite in un futuro a medio, lungo o lunghissimo termine.
3. La soluzione di puntare sulla responsabilità dei pubblici funzionari che hanno sottoscritto i contratti sembra essere preferibile a quella drastica del divieto tout court, che rimuove sì alla radice il problema, ma preclude sempre e comunque l’uso di uno strumento che, come si diceva, di per sé ha una sua profondissima ragion d’essere sul piano economico.
È giusto, quindi, e da accogliere con favore, il richiamo fatto indirettamente dalla sentenza milanese alla responsabilità di coloro che firmano (o hanno firmato in passato) questi contratti senza comprenderli. Vera o meno che sia questa allegazione sulla mancata comprensione, essa non può in alcun modo giustificare, in chi gestisce risorse ingentissime del contribuente, la stipula con leggerezza di un contratto di cui non si conoscono e/o non si comprendono le conclusioni, e tanto meno potrebbe fondare una responsabilità penale delle banche per aver “venduto” quei contratti a degli acquirenti sprovveduti.
Il tutto, fermo restando che il “first best” sembra rimanere comunque sempre la riduzione delle ragioni di indebitamento del soggetto pubblico, nel senso di una riduzione dei capitoli di spesa delle pubbliche amministrazioni nel loro complesso. Questa sì è la via per affrontare anche il problema dei derivati negli enti locali alla radice.
In questo modo, oltre agli immediati vantaggi riscontrabili sul piano diretto, la generalità dei contribuenti ne guadagnerebbe anche in via indiretta nel senso di una riduzione drastica anche dei complessi e costosi procedimenti giudiziari che sono nati tra banche e enti locali tutte le volte in cui l’operazione è risultata essere non conveniente per questi ultimi. Anche la vicenda, ricordata all’inizio, su cui si è appena pronunciata la Corte d’appello di Milano, non avrebbe avuto ragion d’essere in presenza di una gestione più oculata delle finanze del Comune di Milano da parte delle amministrazioni Moratti e Albertini all’epoca in carica, che avesse eliminato alla fonte la necessità stessa di ricorrere all’indebitamento.
© Riproduzione riservata