L’incapacità degli Stati nazionali di affrontare i nuovi rischi sociali offre nuovi spazi di manovra al welfare subnazionale. Le istituzioni regionali, in particolare, sono sempre più interessate a modelli “place-based” di offerta di servizi sociali e per il lavoro. Con quali effetti?
Il revival dei territori
L’ultimo ventennio ha registrato un forte rilancio delle Regioni e dei cosiddetti “territori” nella sfera della protezione sociale. In particolare, le Regioni si sono affermate quali unità spaziali di riferimento per rispondere ai «nuovi rischi»: servizi per la non auto-sufficienza, l’esclusione, la conciliazione, e così via. Date le dimensioni dei vecchi schemi di protezione sociale (in particolare le pensionile pensioni), sarebbe fuorviante e del tutto prematuro ritenere che sia in corso un processo di denazionalizzazione della protezione sociale. Ma è molto probabile che il “terzo livello” regionale rafforzi ulteriormente il suo ruolo, con conseguenze rilevanti per la formazione della nuova polity europea in generale e per la futura configurazione del welfare in particolare.
Varie dinamiche hanno promosso il rilancio del welfare sub-nazionale. Innanzitutto, il mutamento della struttura dei bisogni sociali. L’invecchiamento demografico, la rivoluzione di genere e il cambiamento dei modelli di famiglia hanno portato alla luce bisogni di cura che non possono più essere soddisfatti dalle famiglie, né tanto meno dai singoli individui. A sua volta, la transizione a mercati del lavoro post-fordisti ha fatto emergere la necessità di servizi di collocamento, formazione e riqualificazione su misura, non previsti dagli schemi tradizionali di assicurazione contro la disoccupazione. Pur essendo ancora rilevanti, le posizioni di classe sono diventate meno importanti delle «situazioni di vita» nel generare i bisogni sociali. Le situazioni di vita sono determinate non solo dall’età, dal sesso e dalla condizione fisica ed educativa, ma anche dalle opportunità e dal sostegno concreto offerti dal territorio circostante e in particolare dalla disponibilità a livello locale di adeguati servizi sociali e per il lavoro.
Una seconda dinamica sottostante al rilancio del welfare sub-nazionale è di natura politica. L’attivismo da parte delle autorità sub-nazionali nella sfera del welfare può servire strategie che i politologi chiamano “region-building competitivo”, offrendo alle élite locali una base promettente e politicamente remunerativa per differenziare le proprie politiche al fine di ottenere legittimazione e voti.
La terza dinamica ha a che fare con gli imperativi fiscali e le cosiddetta «nuova politica» del welfare. La necessità urgente di contenere i costi al fine di ridurre il disavanzo e il debito pubblico ha spinto i governi centrali a cercare di riguadagnare il controllo della spesa subnazionale. Molti paesi hanno ridefinito il rapporto finanziario tra centro e periferia con l’obiettivo di aumentare l’autonomia fiscale dei governi locali. Sono stati imposti rigidi vincoli istituzionali di spesa, in alcuni casi (come in Italia, Belgio e Germania) attraverso la stipula di un «patto di stabilità» interno per il rispetto dei requisiti dell’EUM. Sono stati poi ridotti i trasferimenti finanziari dal governo centrale, costringendo i governi subnazionali ad aumentare le imposte locali al fine di finanziare i propri programmi sociali. Tale «decentramento della penuria» è stato determinato non solo da pressioni funzionali, ma anche da calcoli politici. «Scaricare il barile» sui governi locali ha avuto l’evidente vantaggio di trasferire sugli stessi anche la responsabilità di politiche impopolari di riduzione della spesa.
L’effetto di queste trasformazioni è stato la crescente politicizzazione della questione dei trasferimenti e della solidarietà tra territori. I governi locali sono diventati molto più sensibili e attenti al loro saldo finanziario netto rispetto al governo centrale, confrontando puntigliosamente le entrate derivanti dalla propria base imponibile -“confiscate” dal governo nazionale- con i trasferimenti ricevuti da quest’ultimo. Tale confronto ha riguardato non solo le entrate fiscali e i contributi finanziari assegnati territorialmente, ma anche i trasferimenti alle persone (come le pensioni) finanziati dai contributi sociali. In questo modo, la separazione politico-istituzionale tra le politiche di sviluppo regionale da una parte e le politiche del welfare dall’altra ha cominciato ad erodersi. La nuova politica di austerità ha acquisito una dimensione territoriale saliente, contrapponendo le aree più ricche a quelle più povere. Le Regioni sono diventate gruppi d’interesse rilevanti nel difficile gioco della ricalibratura del welfare state.
Il ruolo dell’integrazione europea
La rinascita dei territori e l’avvio di processi di region-building competitivo sono stati favoriti anche da due fattori esogeni: l’internazionalizzazione economica e l’integrazione europea. Durante i cosiddetti Trenta Gloriosi (1945-1975), le economie nazionali funzionavano essenzialmente come «scatole nere» legate le une alle altre attraverso i tassi di cambio. In quanto parti di tali scatole nere, i territori regionali (interni allo Stato) non erano direttamente o autonomamente esposti alla competizione estera. I confini nazionali filtravano accuratamente le loro transazioni con l’esterno, chiudendoli all’interno di uno spazio regolativo nettamente delimitato. Il bilancio pubblico si prendeva direttamente o indirettamente cura delle disparità e degli squilibri regionali interni alla scatola nera.
Sulla scia dei processi internazionali di liberalizzazione economica, i territori regionali si sono trovati in una situazione completamente differente. La rimozione dei confini ha creato opportunità e rischi inediti per transazioni transfrontaliere dirette e autonome, ispirate alla logica della «concorrenza senza protezione», vale a dire della concorrenza non più (o in misura minore) mediata dai regimi regolativi nazionali e da tassi di cambio flessibili. Al fine di sopravvivere e di affermarsi nel nuovo ambiente, i territori regionali devono essere in grado di sfruttare tutte le risorse e i vantaggi comparativi di cui dispongono: la logica delle aree economicamente integrate (e dell’ “agglomerazione dei fattori”) è proprio quella di promuovere le specializzazioni competitive. La differenziazione territoriale è legata non solo alle risorse e ai vantaggi economici in senso stretto, ma anche alle risorse sociali e istituzionali, che possono fare la differenza al fine di attrarre beni e capitali. Lo sviluppo regionale dipende pertanto sempre di più dalla «qualità» complessiva del territorio: non sorprende quindi che l’accrescimento e la promozione della qualità (ad esempio, delle infrastrutture locali, dei servizi pubblici e del capitale umano) sia uno dei temi principali del nuovo processo e della nuova politica di region-building. Le strategie di differenziazione competitiva perseguite dai governi regionali nel corso degli ultimi due decenni possono esse così reinterpretate in modo proficuo come strategie di boundary-building, ovvero di creazione di nuovi spazi contraddistinti da proprie politiche pubbliche volte a favorire gli insider e ad attrarre i gruppi di outsider che possano portare vantaggi alla comunità regionale. Il dibattito comparato ha identificato vari tipi e strategie di neoregionalismo, promossi da specifiche coalizioni per lo sviluppo, ossia da «alleanze interclassiste territoriali» rivolte alla crescita economica. L’integrazione europea ha favorito la rinascita delle periferie e il neo-regionalismo non solo indirettamente, attraverso la creazione del mercato unico, ma anche direttamente, attraverso le politiche di coesione. Queste ultime hanno avuto molteplici effetti: la ripoliticizzazione dei cleavages territoriali e in particolare della questione della redistribuzione interregionale; hanno accresciuto la salienza e la visibilità dei meso-governi, sia quali spazi di appartenenza sia quali attori politici e istituzionali; hanno reso disponibili nuove e sempre più considerevoli risorse (principalmente finanziarie, ma non solo) provenienti sia dal bilancio europeo sia dai bilanci nazionali (attraverso regole di co-finanziamento); hanno offerto ulteriori incentivi ai processi di region-building sia verticale sia orizzontale, spesso agendo come catalizzatore per la formazione di capacità istituzionali e per la creazione di coalizioni locali per lo sviluppo.
Verso un modello di “solidarietà competitive”?
Quali sono le implicazioni di questi sviluppi e di queste trasformazioni per i legami di solidarietà e le politiche redistributive? Le politiche di welfare offrono un terreno fertile e risorse preziose ai processi di strutturazione e ristrutturazione politico-istituzionale. Come già accennato, le società europee stanno cambiando in una direzione che rende le differenze delle situazioni di vita basate sul luogo di residenza una fonte di bisogni relativamente più importante delle tradizionali disuguaglianze di classe. Potrebbero pertanto essere mature le condizioni per un’evoluzione verso un modello di «solidarietà competitive», costruite attorno alle comunità subnazionali e sostenute dalle risorse simboliche, finanziarie o di altra natura offerte dalla UE. Le ricerche sul nuovo regionalismo hanno sottolineato che le caratteristiche e il contenuto effettivo di tali sistemi territoriali di solidarietà possono variare molto, andando da un estremo inclusivo-cosmopolita ad uno esclusivo-xenofobo.
È quest’ultimo a preoccupare, anche perché registra una crescente diffusione. In tutta Europa, i partiti che propongono politiche restrittive (generalmente, partiti di destra populisti) guadagnano terreno manifestando e inasprendo un atteggiamento di chiusura rispetto alla immigrazione. In numerosi paesi, la retorica euroscettica assimila pericolosamente i flussi di mobilità intraeuropea con la migrazione dai paesi extraeuropei, considerata sotto una luce ancora più negativa. Il populismo di destra fece la sua prima comparsa sulla scena politica negli anni Settanta e Ottanta, con campagne incentrate sulla riduzione della pressione fiscale e della burocrazia e rivolte soprattutto a una piccola borghesia composta da piccoli commercianti e artigiani: è il caso, per esempio, del Front National francese, del Fremskrittspartiet (Frp, Partito del progresso) norvegese e del Fremskridtspartiet (Frp, Partito del progresso) danese. Diventando partiti politici organizzati, queste formazioni populiste hanno gradualmente smorzato le critiche al welfare per puntare su altre tematiche, come la lotta ai privilegi e alla corruzione, l’opposizione ai tagli alla spesa (per gli appartenenti alla comunità nativi maschi) e la migrazione. L’evoluzione del Dansk Folkeparti (DF, Partito del popolo danese), del Freiheitliche Partei Österreichs (FPÖ, Partito della libertà austriaco) e del Front National francese ben esemplifica questa svolta ideologica che ha attirato i consensi degli elettori della classe lavoratrice, spaventati dalla globalizzazione, dagli shock economici e dai cambiamenti radicali del mercato del lavoro.
Recenti ricerche sulle determinanti dell’atteggiamento negativo verso l’immigrazione hanno dimostrato che la chiusura è tipicamente associata alla vulnerabilità socioeconomica degli intervistati, a conferma della validità della "teoria della minaccia" (“threat theory”): le percezioni negative aumentano in contesti caratterizzati dalla competizione per aggiudicarsi risorse scarse (posti di lavoro, servizi) e a seconda delle dimensioni e della distanza culturale dell’outgroup. Nei Paesi Bassi, in Francia, in Italia e soprattutto nel Regno Unito, i partiti populisti invocano modifiche dei programmi di welfare che vanno nel senso dell’esclusione, volte a creare differenze di trattamento più nette tra nazionali e cittadini di altri paesi UE, nazionali e migranti extra-UE, senza neppure contemplare i migranti irregolari. Più in generale, queste formazioni hanno assunto un profilo spiccatamente “sovranista” e hanno lanciato un attacco a tutto campo contro l’integrazione e la stessa Unione europea. I crescenti flussi migratori e i rapporti interculturali hanno infiammato anche i vari partiti “etnoregionalisti”, spingendoli ad accentuare la chiusura rispetto all’immigrazione e a mettere al centro del proprio programma la difesa dei nativi. La presenza e la visibilità sempre maggiori della “diversità” permettono poi di ingigantire e mitizzare le forme culturali locali/etniche, spesso attraverso la manipolazione storica. La Gemeinschaft locale viene quindi presentata come lo spazio naturale delle forme di condivisione basate sull’identità.
Il crescente appeal e radicamento di questi orientamenti erodono le predisposizioni culturali per l'accettazione e la pratica del cosmopolitismo inclusivo. Il rilancio del territorio può sicuramente costituire una preziosa opportunità per delineare nuove traiettorie e modalità di crescita – questo è ad esempio stato uno dei principali temi discussi nel recente Festival dell'economia di Trento. Tuttavia tale rilancio può anche aprire la strada a scenari politico-sociali meno rosei: il regresso dell’Europa verso una “Fortezza di Fortezze” (nazionali e persino sub-nazionali), con effetti negativi sullo sviluppo economico e l'inclusione sociale.
© Riproduzione riservata