Negli ultimi vent’anni si è molto parlato di liberalismo, ma al netto delle chiacchiere si è fatto molto poco, con il risultato che il discorso liberale si è spesso trasformato in un vuoto rosario di parole prive di significato. Se guardiamo poi alla produzione di pensiero, colpisce come oggi il liberalismo abbia così poco da dire sulla complessità dei fenomeni che si accompagnano alla globalizzazione, lasciando il campo ad altre scuole di pensiero, che alla fine riscuotono più interesse proprio perché danno risposte su questioni più legate ai veri problemi del nostro tempo. Una certa propensione al formalismo porta poi il pensiero liberale a rifugiarsi in cattedrali d’idee solo apparentemente rigorose e razionali, ma che messe di fronte alla prova dei fatti si sfaldano per la loro scarsa utilità, proprio perché prive di una vera comprensione profonda del momento storico. Ma è questa propensione all’astrattezza una caratteristica propria del pensiero liberale, o è solo una caratteristica del liberalismo contemporaneo?
1. Secondo il filosofo americano Richard Rorty, il pensiero deve ispirare oltre che convincere, e il discorso dei liberali ha cessato da tempo di ispirare. Nella situazione di crisi attuale, altri pensatori e altri stili di pensiero paiono avere molte più cose da dire di quelli liberali: da Negri e Hardt, giù fino alle insuperate pietre miliari del pensiero critico della Scuola di Francoforte.
A posteriori, verrebbe da dire che fu Theodor W. Adorno a vincere la diatriba che lo opponeva Karl Popper, se non fosse che la poca propensione liberale alla critica sociale ha radici ancora più profonde. Queste si possono già riscontare nell’Inghilterra del XVII secolo quando Hobbes e Locke prospettarono le loro diverse concezioni di Stato, dopo più di un secolo di guerre di religione e poco prima della promulgazione di quel Bill of Rights che è alla base del costituzionalismo moderno. Sebbene entrambi si muovessero sul terreno comune del giusnaturalismo, da una parte (quella di Hobbes) c’è il Leviatano che diverrà lo stato dei positivisti, dei tecnocrati e, infine, del totalitarismo; dall’altra invece (quella Locke), c’è lo stato liberale e la sua versione «ideologicamente forte» dello stato minimo. Entrambi hanno dato vita a innumerevoli ideologie e utopie, senza contare che dietro le concezioni dei padri fondatori degli Stati Uniti e della Costituzione americana c’è proprio la visione dello stato teorizzata da John Locke.
Tuttavia, si può affermare che, nel lungo termine, qualora comincino a presentarsi problemi, di qualunque natura essi siano (economici, politici, culturali), lo stato liberale sembra essere afflitto da profonde falle. Così, il Leviatano, l’animale più indomabile, selvaggio, e biecamente razionale, si staglia di nuovo sull’orizzonte della storia. E questo avviene, non solo perché esso appare come una forma politica capace di agire in maniera più efficace in determinati momenti (volendo essere di moda, riprendendo Agamben, che a sua volta ripesca Schmitt, potremmo chiamarli di «stato di eccezione») ma anche perché, dietro il modello di Hobbes, vi è una smisurata mitologia, che si affaccia fin dal nome biblico della creatura.
In tal modo, Hobbes sembra volerci dimostrare che una qualche forma di assolutismo è stata da sempre necessaria al fine di arginare un violento stato di natura. Per di più, alle spalle di questa soluzione, oltre al mito, giace tutto ciò che la storia ci ha tramandato a proposito dei conflitti umani, da Tucidide, fino a Cesare e poi a Machiavelli: ossia che la natura umana, sempre che siamo disposti a credere che una cosa del genere possa esistere, è polemica piuttosto che perfettibile.
Le esperienze degli stati assoluti e dei dictatores romani sono lì a mostrarci proprio questo: alla libertà degli individui pensata da Locke (questi stipulano il loro contratto sociale con il sovrano, legittimandolo) a volte è preferibile la libertà di un sovrano, legittimato da individui che stipulano un patto tra loro, per demandare al primo la gestione di tutto. Le ragioni di tale «preferibilità» risiedono nel fatto che, altrimenti, detto in soldoni, ci si scannerebbe fra di noi: è questa dinamica e, ovviamente, una certa avversione alla visione del mondo di Locke e dei liberali, che muovevano Nietzsche a sentenziare come il concetto di felicità fosse una sciocchezza buona solo per gli inglesi. Dimenticava però di considerare quanto fosse Hobbes altrettanto inglese.
I problemi però non si limitano al maggior “fascino” che le soluzioni autoritarie o dirigistiche esercitano sulle menti di molti, sconfinando spesso nei populismi, ma si concretizzano nell’impossibilità dei pensatori liberali di fornire analisi sufficientemente profonde delle dinamiche che portano a concepire soluzioni diverse da quelle tradizionalmente afferenti all’area del liberalismo.
È indubbio che l’altro fondamentale lascito di Locke alla dottrina del liberalismo sia la centralità rivestita dalla libertà di iniziativa economica per un sistema che possa dirsi autenticamente liberale. Al centro di tale concezione vi sono ovviamente, la proprietà privata e il libero scambio, che verranno posti a presupposto di quel diritto alla ricerca della felicità sancito dalla Dichiarazione d’Indipendenza americana e che saranno istituzionalizzati dalle codificazioni, a seguito della Rivoluzione Francese, nei paesi di civil law. Tale teorizzazione isolava per la prima volta in modo concreto quale fosse lo strumento principale che gli esseri umani hanno, in una società complessa, per poter effettivamente esercitare la propria libertà; non che mancassero possibilità di scambio libero nel medioevo, o nell’antichità, ma la libertà economica, in una società che necessita di uno stato articolato, che sia in grado di esercitare molteplici attività (cominciavano ad esistere imprese dello stato) era necessaria per ristabilire quali fossero i confini della sfera privata degli individui.
2. Il problema di questa importante eredità si è però concretato in una costruzione ideologica che spesso si manifesta come una vera e propria metafisica del mercato. Fenomeni come le crisi economiche hanno dimostrato che, essendo costituito da molteplici volontà umane, il mercato è soggetto alle stesse incertezze del resto delle nostre attività. Siamo certamente ancora noi a fare il mercato e non viceversa, altrimenti dovremmo arrenderci e ammettere l’esistenza di una sorta di demiurgo delle istituzioni. Se infatti non c’è alcun dubbio che le forme di organizzazione dei gruppi umani sorgono come ordini spontanei ed evolvono nel tempo (come hanno ben visto i teorici e filosofi del capitalismo, da Adam Smith sino a Hayek), è però quantomeno azzardato affermare che il mercato sia la mano invisibile di tutte le mani invisibili, in grado di autogovernarsi e dirigere il resto delle creazioni dell’uomo. Tanto meno è razionale pensare che il mercato possa avere questo ruolo di istituto metafisico all’interno delle moderne democrazie liberali, le quali, piaccia o meno, hanno la forma di stati sociali di diritto, in cui le amministrazioni hanno numerosi compiti e che, di sicuro, si sono formati anch’essi spontaneamente, da altrettante volontà quante quelle che plasmano il sistema della produzione e del libero scambio. Si crea altrimenti una vera e propria divinità; ovvero ci si trova nella situazione di dover ammettere complotti e mani nascoste, rette da volontà malvagie e interessate, che remano contro quell’unico ordine spontaneo che è il mercato.
Questa «grande narrazione» è forse l’elemento che, più di tutti, ha contribuito a tarpare le ali degli intellettuali liberali. Lungi dal costituire un’aridità teorica in partenza, in quanto è tanto e più utopica e ideologica rispetto alle altre, essa tende però a concretizzarsi in una concezione astorica e anti-intellettuale del complesso delle vicende umane. Il peccato del pensatore liberale è stato quello di ridurre a poca cosa le motivazioni dell’azione umana e i meccanismi che ad essa dovrebbero presiedere, eludendo la storia e il pensiero. Di segno opposto è stato il peccato del pensatore di sinistra, che ha identificato nella storia stessa un cammino dialettico verso la liberazione da tutti gli «dei», compreso, per ultimo, quello rappresentato dalla mano invisibile del mercato.
Il guaio è che tale costruzione intellettuale si è svilita in una visione, come abbiamo detto, astorica e anti-intellettuale, in parte perché è stata fatta propria e sviluppata da pensatori la cui provenienza era la cultura tecnica e professionale, come l’economia o il diritto positivo, piuttosto che quella speculativa e critica. Essi non analizzavano (e non analizzano) il fenomeno degli ordini spontanei e del mercato, ma tendono a utilizzarlo come un postulato per le loro analisi, o come un semplice attrezzo di problem solving. Basta dare un’occhiata a un qualsiasi manuale di economia politica, per rendersi conto della pochezza intellettuale di una visione del mondo che voglia fondarsi sulle motivazioni dell’azione umana elaborate dagli economisti, oltre al fatto che i vari metodi sono spesso presentati senza alcun riferimento alla situazione storica e dottrinale che li ha generati: chiunque abbia mai preso sul serio un libro di filosofia o di scienza politica, sa che le motivazioni umane sono più complesse delle semplici motivazioni economiche.
Non a caso, in tempi recenti, anche le teorizzazioni dell’economia si affidano all’apporto di psicologi e sociologi (che peraltro vincono il Nobel al posto degli economisti duri e puri, come dimostrano i casi di Daniel Kahneman, di Thomas Schelling o, indiscutibilmente, dello stesso Hayek) perché «le cose sono più stratificate».
Si può rilevare, a tal proposito, come l’elemento che più destabilizzò gli intellettuali della New Left negli Stati Uniti, nel confronto con i cosiddetti neoconservatori, fu, almeno in un primo tempo, la capacità che questi ultimi avevano di difendere il sistema capitalistico e le politiche dello stato americano, su un terreno – quello eminentemente critico e speculativo – del quale i primi erano leader indiscussi. I neoconservatori erano infatti capaci di pronunciarsi a favore del libero scambio esponendo motivazioni di ordine sociologico, oppure di discutere di Camus o del marchese De Sade in chiave politica, in quanto provenivano dalla medesima formazione dei loro «avversari».
La stessa tendenza alla iper-semplificazione, se non alla banalizzazione, del pensiero e dell’agire umano, la si può però percepire anche nella produzione intellettuale di studiosi liberali che non sono propriamente esponenti di una cultura di tipo strettamente tecnico-professionale. Già Karl Popper, tacciando di totalitarismo Platone e di miseria lo storicismo, aveva dato del suo, ma alcuni vertici raggiunti da taluni pensatori liberali più vicini a noi nel tempo, sono davvero quanto di meno augurabile per il pensiero autenticamente filosofico.
Le ragioni avanzate da Robert Nozick, un filosofo per altri versi brillante, a spiegazione del fenomeno per cui molti intellettuali si oppongono al capitalismo, o comunque ai sistemi economici che prevedono il libero scambio, sono letteralmente imbarazzanti, come si può evincere da un suo articolo del 1998. Il filosofo di Harvard tenta di tracciare una sociologia del nerd, il quale colleziona risultati ottimi a scuola e all’università, ma non riesce ad adattarsi ai meccanismi dell’autogoverno del mercato, in quanto non corrispondono a quelli della meritocrazia della didattica scolastica. Questa dinamica del risentimento verso il successo del «capitalista» da parte dell’intellettuale, che Nozick ricalca su quanto, altrettanto avventatamente, fu teorizzato dall’economista austriaco Ludwig von Mises, è oltremodo semplicistica. Stupisce che filosofi ed economisti si affidino a una psicologia da «posta del cuore», senza oltretutto considerare l’apparente contraddizione data dalla contingenza che proprio Mises nel 1949 aveva dedicato uno studio approfondito al tema dell’azione umana, assai più sfaccettato e problematico di molte altre opere partorite da economisti, liberali e non. L’analisi proposta da Nozick risulta poi del tutto sorda e cieca di fronte ai problemi che può effettivamente creare la metafisica del mercato di fronte a complicazioni come quelle sopra accennate, date dallo stato sociale di diritto, dalla crisi fiscale degli stati, o delle inevitabili falle che creazioni umane quali il libero scambio e i movimenti di capitale possono presentare. Inoltre, è incurante della storia, intesa sia come ricostruzione di accadimanti, sia come storia intellettuale e sociale: disciplina che sarebbe in grado di fornire quadri forse meno pronti all’uso e rassicuranti per l’ideologia «mercatoria», ma sicuramente più rispondenti alla realtà della complessità e degli abissi del pensiero.
Un altro filosofo che può essere preso ad esempio è John Rawls, considerato il maggior pensatore politico statunitense della seconda metà del Novecento, autore dell’elogiatissimo e dibattuto A Theory of Justice. Rawls è considerato a tutti gli effetti un liberale in Italia e in altri paesi in Europa ed è il punto di riferimento di studiosi ed intellettuali liberali che ne hanno ampiamente indagato l’opera, come ad esempio, nel nostro paese, Sebastiano Maffettone. Tuttavia, in America, egli è considerato un liberal, qualificazione che non ha la nostra stessa accezione di liberale; nondimeno, egli è stato anche un profondo studioso del pensiero liberale classico. Anche rispetto a Rawls però, si possono muovere osservazioni che vanno all’incirca nella stessa direzione fino ad ora tracciata: la stessa elaborazione teoretica di A Theory of Justice parte da modelli talmente astratti e distanti, rispetto alla realtà storica e culturale, da porre l’opera su un piano totalmente avulso dall’ambito della concretezza della politica e degli ordinamenti giuridici. Basta aver frequentato i realisti americani come Roscoe Pound (esempio malfatto, perché si tratta di un realista pentito) per comprenderlo: l’eleganza analitica di una teoria non la rende rilevante per la storia, tantomeno per eventi fugaci, come riforme economiche o, per usare un termine di Richard Rorty, «campagne» politiche. Chi inoltre abbia messo il naso nei libri di qualche cinico continentale come Carl Schmitt (ma basterebbe un filosofo italiano come Giorgio Del Vecchio) o perfino di qualche positivista alla Hans Kelsen (e anche qui, basterebbe rivolgersi a Bobbio), sa che tutto gira in modo assai diverso da quanto viene geometricamente formulato da Rawls.
3. Qui però le cose si complicano e si rischia di deragliare verso i rimproveri di eccessiva semplificazione che i continentali hanno sempre mosso agli analitici: indeterminazione «testuale» contro affermazioni rette dalla sola logica proposizionale, «il nuovo realismo è populismo» e via di questo passo. Un fondo di verità, però, dovrebbe essere rilevato e posto come questione ai pensatori liberali: cosa me ne faccio della logica (più o meno formale), o di una costruzione ineccepibile basata su postulati o, eventualmente, su esperimenti di pensiero, di fronte a persone che perdono il lavoro, alla corruzione, al terrorismo islamista, o ad una guerra su base etnica o religiosa? Niente, è scontato. Non è però scontato che il buon vecchio Machiavelli o, per molti, l’Impero di Antonio Negri e Michael Hardt piuttosto che Lo scontro delle civiltà di Samuel Huntington, possano contenere suggerimenti utili. Per altri, informazioni adeguate sono contenute nel Corano e non è certo fenomeno da sottovalutare con spocchia illuministica.
Eppure, sembra che i pensatori liberali non se ne accorgano e continuino a crogiolarsi nel loro mondo fatto di modelli razionali solo al loro interno. Anzi, sembra perfino che stiano sviluppando sempre più avversione (se non una vera e propria fobia) nei confronti del pensiero autenticamente filosofico, rintanandosi in un dialogo autoreferenziale. Non è forse un caso che roccaforti italiane del liberalismo come la Luiss, o l’Università Bocconi, abbiano ormai un’atavica paura del termine «filosofia», sostituito sempre più dal molto più innocuo e d’altronde business-oriented «metodologia». La creazione di cattedre dai nomi improbabili come «metodologia del diritto», o «metodologia delle scienze sociali», al fine di mascherare le «filosofie speciali» del diritto e della politica, per tenere il più lontano possibile da una qualsiasi opportunità di pensiero critico il futuro economista, il futuro avvocato o imprenditore, è un obbrobrio che ben testimonia questa inettitudine.
Forse, sarebbe il caso per i liberali di riprendere contatto con il pensiero filosofico contemporaneo e con le discipline storiche, e questo al fine di non smarrire quelle potenzialità di analisi e quel potere di ispirazione che, per Rorty, sono fondamentali per le elaborazioni umane e potrebbero effettivamente condurre le loro considerazioni a funzionare da guida per un mondo in crisi, cogliendo l’opportunità di essere la base per una filosofia futura, che possa definire bene la sfera della libertà e delle azioni umane.
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