Il Medio Oriente offre, nella sua storia moderna, un caleidoscopio di movimenti politici di estrema varietà: formazioni di sinistra rivoluzionaria, riformatori liberali, islamisti, partiti nazionalisti. Presentiamo qui alcune coordinate per capire quali movimenti siano emersi, e perché. Ci sono due posizioni antitetiche, ma ugualmente inadeguate, nell’analisi dei processi storico-politici che hanno caratterizzato il Medio Oriente odierno. Da una parte, un’enfasi quasi parossistica sull’esperienza coloniale prima e sulle politiche imperialiste di potenze vicine e lontane poi. Dall’altra, una speculare ignoranza di tali dinamiche, o un loro ridimensionamento tanto profondo da renderle poco più che delle note a piè di pagina. Il primo approccio nega qualsiasi capacità di agire agli attori locali, siano essi popoli, movimenti, o élite. Questi sarebbero vittime perenni di macchinazioni altrui, e quindi assolte da qualsivoglia responsabilità per quello che è, o non è, successo. Il secondo invece ignora il contesto in cui appunto popoli, movimenti o élite hanno agito; non considera i vincoli rappresentati da un’eredità storica pesante, così come i disegni politici altrui.
Che sia il conflitto a Gaza, il nuovo regime islamista in Siria, la Libia in stato di anarchia o le ricorrenti proteste di massa in Iran (solo per citare alcuni casi), per comprendere ciò a cui assistiamo è necessaria un’analisi che tenti di conciliare queste due prospettive. E tale analisi non può prescindere da una visione storica di medio-lungo periodo. Questo implica partire dall’esperienza coloniale, che è stata fondamentalmente un incontro – e a volte uno scontro – con la modernità europea. È un punto di partenza necessario per definire appunto in quale contesto sono emerse, nel corso del tempo, le risposte alla sfida, perché di questo si è trattato, posta dai paesi europei. Risposte, come vedremo, varie e mutevoli.
La penetrazione coloniale in Medio Oriente e Nord Africa
Una prospettiva storica dunque: serve tornare indietro di un paio di secoli. Le potenze europee si rendono conto già nell’800 del crescente vantaggio militare ed economico che andavano accumulando nei confronti dell’Impero Ottomano, che aveva dominato per quattro secoli buona parte di quello che oggi chiamiamo Medio Oriente. Ne conquistano man mano tutte le provincie del Nord Africa (Algeria nel 1831 e Tunisia nel 1881 con i Francesi; Egitto nel 1882 con gli Inglesi; e pure l’Italia giolittiana, che muove guerra al sultano nel 1911 e occupa la Libia). Poi, dopo la sconfitta degli Ottomani nella Prima Guerra mondiale, Gran Bretagna e Francia smembrano quel che resta dei territori arabi controllati da Istanbul. Creano così nuove entità politiche, i ‘mandati’ di Iraq, Transgiordania, Siria, Libano e Palestina. Gli Inglesi controllano pure il Golfo con vari protettorati sulla sponda araba e profonda influenza su quella persiana. Se alle nostre latitudini i nomi di Mark Sykes e François Georges-Picot sono conosciuti solo dagli specialisti, in Medio Oriente sono sinonimo di imperialismo coloniale: sono i due funzionari, uno britannico e l’altro francese, che gestiscono la spartizione dei territori del Levante nel 1916. Un secolo più tardi, il sedicente Stato Islamico (ISIS) occupa territori tra Iraq e Siria: dichiara di aver finalmente eliminato gli accordi di Sykes-Picot che avevano creato il fittizio e alieno confine tra i due paesi, con tanto di cerimonia trasmessa on line di distruzione delle strutture erette sul confine.

La tragica e sciagurata esperienza dell’ISIS indica un risentimento verso una traiettoria storica percepita come ingiusta, segnata da dominazione e macchinazioni altrui. Possiamo, in questo senso, evidenziare quattro tipi di risposte nelle negoziazioni dei movimenti politici e delle élite mediorientali con la modernità. Modernità che è di marca europea, e che dunque si pone come sistema culturale, filosofico, istituzionale e valoriale allogeno ai popoli extra-europei. Non si vuole qui indicare un’alterità totale, incommensurabile – posizione che culmina poi nella tesi, piuttosto rozza, dello ‘scontro di civiltà.’ Invece, vogliamo parlare appunto di negoziazione: cosa prendiamo, cosa rifiutiamo di tale sistema? Ovvero, in che modo vogliamo essere moderni? Di conseguenza, si pongono questioni come: che tipo di sistema politico vogliamo? Quali devono essere i valori fondanti della nostra società? Quale sistema economico adottare per generare crescita e sviluppo? Quello che ne scaturisce è una serie di tentativi di bilanciare lo squilibrio a livello politico ed economico con l’Europa prima, e poi l’Occidente in generale.
L’era liberale
La prima risposta che possiamo individuare, grosso modo tra fine ‘800 e prima metà del ‘900, è una risposta di stampo liberale. Molte élite intellettuali arabe, persiane e turche vedono i principi ormai affermatosi in Europa occidentale come un modello da emulare. Parliamo di pluralismo, stato di diritto, libertà individuali di stampo liberale ‘classico.’ Non vedono un ruolo attivo delle masse – soprattutto rurali e contadine, dato che un processo di industrializzazione diffuso è ancora di là da venire – nella vita pubblica. In questo senso non sono propriamente movimenti democratici, ma piuttosto elitari. Il partito Wafd egiziano, molto attivo negli anni ’20, ne è un classico esempio. Ma lo è anche Mohamed Abduh, gran muftì egiziano e filosofo raffinatissimo, che tentò di conciliare il razionalismo di stampo illuminista con i principi islamici. O ancora: la prima rivoluzione iraniana del ventesimo secolo, nel 1905, viene chiamata ‘Costituzionale.’ La rimozione dello scià della dinastia Qajar viene accompagnata appunto dalla redazione di un documento che garantiva separazione dei poteri; e, sebbene possa sembrare paradossale visti gli sviluppi successivi, la limitazione dell’esecutivo fu appoggiata fortemente dalla classe clericale.
Lo statismo nazionalista
Quasi contemporaneamente si sviluppa un’altra tendenza. Il liberalismo viene percepito come inadeguato per fronteggiare le sfide del colonialismo e dell’imperialismo europeo. Prima nell’Impero Ottomano e poi in Turchia si preferì la creazione di uno stato forte, centralizzato, e poi con chiari tratti nazionalisti. Era un movimento che andava prima sotto il nome di ‘Giovani Ottomani’ e poi ‘Giovani Turchi.’ Il richiamo alla ‘Giovine Italia’ di Mazzini era chiaro e voluto. Esso sottolineava quale fosse l’orizzonte entro il quale emergevano queste posizioni e come idee provenienti dall’Europa fossero discusse e rielaborate. In fondo, il nazionalismo era un concetto politico ancora una volta estraneo al contesto mediorientale: sia in turco che in arabo si dovettero creare termini appostiti per esprimere tale idea. L’esperienza turca è la più importante. Il paese emerge vittorioso in una guerra d’indipendenza contro eserciti europei dopo la fine della Prima Guerra mondiale. A sua volta, un ufficiale cosacco prende il potere nel 1921 in Iran, creando l’ultima dinastia a sedersi sul Trono del Pavone, quella dei Pahlavi. Muhammad Scià vuole essere emulo di Mustafa Kemal Ataturk, che ha reso la Turchia una potenza rispettata anche in Europa: stato centrale, forte, dirigista.
Il socialismo arabo
Finita la Seconde Guerra Mondiale, inizia la decolonizzazione dei paesi arabi ancora sotto egida europea. I gruppi sociali che avevano collaborato con le potenze coloniali (soprattutto possidenti terrieri, notabilato delle città, inclusi i membri delle élite liberali, che avevano mantenuto un approccio più accomodante verso il colonialismo) ereditano il controllo dei nuovi paesi indipendenti. Ma ecco che un terzo movimento sale alla ribalta: una sinistra socialista e rivoluzionaria. Questa era opposta alla prospettiva, gattopardiana, che ‘tutto cambi affinché tutto rimanga com’era,’ rappresentata proprio dalla classe sociopolitica ancora dominante: una classe più moderata, quando non conservatrice, percepita come retrograda e compromessa con il colonialismo. Il termine socialismo non era un riferimento alla dottrina marxista (sebbene pure nel mondo arabo comparissero partiti comunisti di tale estrazione: ma rimasero fenomeno meno rilevante). Si riferiva invece alla volontà di integrare le masse nella vita politica ed economica del paese. Inoltre, questo socialismo adottava il nazionalismo arabo come elemento importante. Un nazionalismo che predicava emancipazione vera dal legame coloniale: un legame reciso, secondo questo approccio, de jure ma non de facto con le indipendenze formali ottenute dagli stati arabi. Appartengono a questo movimento ideologico due figure chiave come Gamal Abdul Nasser in Egitto e Muammar Gheddafi in Libia.

Questi trasformarono i loro paesi in repubbliche ‘progressiste’ con la rimozione di due sovrani, re Faruk e re Idriss, che consideravano sovrani di nome ma non di fatto, supini agli interessi di Gran Bretagna e Italia. Altra incarnazione famosa di questo movimento è quello del ‘Partito della Rinascita Araba,’ o Partito Ba’th. Conosciuto per essere stato il partito di Saddam Hussein in Iraq e degli Asad in Siria, fu creato appunto da due siriani, Salah ad-Din al-Bitar e Michel Aflaq mentre erano studenti alla Sorbona negli anni ‘40. Il motto del Ba’th recita: ‘Unità, Libertà, Socialismo.’ Unità come panarabismo, l’unificazione di una nazione divisa in stati artificiali imposti dall’esterno. Libertà non come adesione ai principi liberali, ma come resistenza ed emancipazione dal colonialismo e dall’imperialismo. Socialismo come abbattimento delle differenze di classe, certo, ma in senso corporativo, con il concomitante ruolo dirigista dello stato nella gestione dell’economia.
Il socialismo arabo, sia esso di stampo nasseriano o ba’thista, domina tutto il secondo dopoguerra. Tale è il suo ascendente che spacca il mondo arabo secondo una logica da guerra fredda: essendo antimperialista e socialista, paesi come Algeria, Egitto e Siria si avvicinano all’Unione Sovietica; criticano aspramente le monarchie del Golfo per la loro vicinanza all’Occidente e per le politiche reazionarie. In più, c’è la questione chiave, quella di Israele. Il progetto panarabo si incardina sulla liberazione della Palestina dal sionismo, visto come ultima e più micidiale macchinazione coloniale-imperialista. L’Egitto di Nasser si fa portavoce e leader del panarabismo. È con la devastante sconfitta della coalizione araba nella Guerra dei Sei Giorni, nel giugno del 1967, che tale progetto naufraga irrimediabilmente. Egitto, Siria e Giordania perdono ulteriori territori a vantaggio di Israele. Lo sconcerto è talmente grande che un nuovo e ultimo movimento di negoziazione, stavolta intesa come resistenza, con la modernità emerge con vigore.
Islamizzare la modernità
L’idea di riconciliare fede islamica e modernità percorre da sempre, in parallelo ma in sottotraccia con quanto discusso finora, ogni società mediorientale (e islamica in generale). Il citato Mohammed Abduh rappresentava un approccio che è stato definito di ‘modernizzare l’Islam.’ Quanto va a manifestarsi in maniera prorompente dagli anni ’70 in avanti è invece un tentativo di ‘islamizzare la modernità.’ Gli stati arabi hanno perso la guerra, sono tutti regimi repressivi e autoritari, non hanno conosciuto sviluppo economico o giustizia sociale e non c’è vera liberazione dalle potenze occidentali: tutto questo è accaduto, affermano alcuni intellettuali islamisti facendosi latori di un sentimento diffuso, perché essi hanno abbandonato la religione. Il progetto liberale di inizio secolo era fondato su basi laiche. Il nazionalismo di Ataturk e Muhammad Scià aveva scientemente marginalizzato, quando non represso, la religione. Il socialismo arabo non era ateo: ma relegava la religione a mero attributo culturale.
Ecco dunque che l’Islamismo, il tentativo di informare la politica secondo determinate letture dei dettami islamici, sorge sia da una serie di fallimenti, sia da una serie di aspirazioni e desideri rimasti insoddisfatti. Le sue forme più tristemente note – quelle militanti e violente – non ne esauriscono le varie e multiformi manifestazioni. Inizia una fase dove i movimenti e poi partiti islamisti rappresentano la principale, e a volte unica, opposizione ai regimi dittatoriali della regione. Allo stesso tempo, nessuno di essi fu responsabile della primavera araba, la più grande sfida portata a tali regimi. La primavera araba non fu un tentativo di rivoluzione islamista – aveva anzi tratti liberali e democratici.
Gli approcci, le risposte alla modernità di cui si sono qui tracciate alcune linee non si sono sostituite l’una all’altra. Convivono invece in modo ora conflittuale ora più cooperativo. Possiamo ricordare, per esempio, islamisti in Tunisia vincere elezioni nel 2011 in un sistema costituzionale laico e secolare; alleanze tra comunisti e islamisti in Iraq nelle proteste di piazza del 2019; o ancora, la Turchia affiancare elementi di paese democratico a quelli un regime di destra sotto Erdogan. Sono tentativi di risolvere problemi e dilemmi che continuano a non trovare soluzioni veramente condivise. Sono sforzi per dare risposte a questioni poste da un incontro articolato e complesso con la modernità.
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