“L’estinzione della subcultura neofascista e la bancarotta planetaria del comunismo non hanno portato alla riconciliazione della cultura italiana con la scienza, la tecnica e il mercato, poiché la scena è stata occupata da nuove e più sofisticate forme di irrazionalismo e di anti-illuminismo: la Gnosi di Martin Heidegger, la cosiddetta filosofia post-moderna, l’ideologia della decrescita e l’ecologismo radicale, profondamente ostile al progresso scientifico-tecnologico”.

Così Luciano Pellicani, in un pamphlet scritto a quattro mani con Elio Cadelo, sintetizza l’offensiva filosofica, culturale e mentale che oggi ha per fautori i nemici della modernità. Contro la modernità – Le radici della cultura antiscientifica in Italia (Rubbettino) è un libro di 170 pagine, diviso in due parti. La prima contiene un saggio di Pellicani, mentre i restanti 6 capitoli, scritti da Cadelo, descrivono una lunga serie di guasti arrecati alla società italiana dall’ideologia irrazionale e antiscientifica che imperversa dalle nostre parti.

1. Nel tentativo di reagire al positivismo scientista dell’800, il neo-idealismo di Croce e Gentile ha rappresentato “un grave arretramento culturale”, spiega Pellicani, che si dichiara sorpreso dal giudizio di Corrado Ocone, secondo cui l’avversione di Croce alle scienze altro non sarebbe che un mito. La retorica antiscientifica, viceversa, è stata alimentata a lungo dal crocianesimo, dal marxismo dialettico e naturalmente dalla cultura cattolica.

Caduto il fascismo e passato il dopoguerra, gli anni ’60 sono stati una vera e propria “Caporetto della scienza italiana”, alla quale in qualche modo hanno cercato di resistere scienziati del calibro di Renato Dulbecco, Adriano Buzzati-Traverso, Giuliano Toraldo di Francia. La contestazione è stata una violenta reazione ideologica contro la modernità, ben rappresentata dal fisico Massimo Cini secondo il quale “la scienza è al servizio del capitale”. L’ideologia rivoluzionaria diventa così un torrente in piena, che mira a “liberare l’umanità dall’opprimente dominio della (pseudo)scienza borghese”, fino ad assumere lo stesso ruolo svolto in passato dalle religioni.

Questa “metamorfosi del Sacro” vede la politica come una prassi salvifica che ha per protagonista il nuovo Homo ideologicus. La celebre Scuola di Francoforte si scaglia contro l’illuminismo in nome dello “spirito superiore” della dialettica, dando vita in realtà a una sorta di oscurantismo progressista, una forma appena mascherata di misticismo. Herbert Marcuse, il “maestro degli studenti in collera”, arriva ad affermare che ciò che aliena e disumanizza l’uomo è la scienza. Alla dialettica non resta altro compito che quello di “demolire la realtà già data” – un intento nichilistico non a caso in perfetta sintonia con il pensiero reazionario di Julius Evola e con il cattolicesimo conservatore di Augusto Del Noce.

2. Le origini profonde di questa avversione per la modernità, osserva acutamente Pellicani, risiedono nella “morte di Dio” e nel “disincanto del mondo”, a ben vedere iniziati con l’universo matematico di Galileo. Rompendo la Santa Alleanza fra conoscenza e senso, l’essere umano si ritrova in un universo privo di significato, un’immensità indifferente dalla quale l’uomo emerge per caso, privo di scopo e vuoto di significato. Per questo la scienza è definita da Nietzsche “grande apportatrice di dolore”. Rimasto orfano di Dio, l’uomo deve inventare una nuova metafisica e la dialettica hegeliana serve perfettamente allo scopo. Lo storicismo idealistico diventa così “la religione degli uomini colti”, lungo tutto il corso del Novecento e fino ai giorni nostri.

Così, ancora oggi, da Cornelius Castoriadis a Serge Latouche, i guru dell’anti-modernità proseguono la loro nichilistica guerriglia contro la civiltà occidentale. Si diffonde una nuova ideologia: la ragione ecologista, che punta alla fuoriuscita dal capitalismo attraverso la decrescita. Si tratta di “uscire dall’economia”, cioè dalla “religione del mercato” che ha provocato un fenomeno perverso: “l’occidentalizzazione del mondo”. Ma la teoria terzomondista secondo la quale “il capitalismo non può sopravvivere senza le economie non capitalistiche” sostenuta fra gli altri da Zygmunt Bauman, costituisce un falso storico di colossali proporzioni, un’accecante distorsione della realtà di cui Pellicani dimostra senza fatica la completa infondatezza.

Gli ecologisti fanno uso continuo e quotidiano di macchine della più varia specie e natura e intanto detestano tutto ciò che è artificiale: odiano l’industria, la chimica, la tecnologia, soprattutto sono ostili al presente, in nome di un’inedita mescolanza di nostalgie per il passato e di aspettative sul futuro. Sentimenti nei quali Hannah Arendt ha efficacemente identificato una delle fonti primarie della reazione totalitaria contro la civiltà liberale. Solo per questa strada, infatti, Latouche può arrivare teorizzare un evidente ossimoro, “l’abbondanza frugale”, da imporre tramite una “dittatura dei bisogni”, esercitata naturalmente da coloro che soli hanno saputo liberarsi dai “falsi valori dell’ideologia borghese”.

Ma è vero il contrario: “solo la scienza e la tecnica possono rispondere positivamente alla sfida ecologica senza bloccare lo sviluppo economico” avverte Luciano Pellicani in conclusione del suo saggio.

3. La seconda parte del libro, a opera di Cadelo, è un lungo e desolante elenco dei ritardi e dei primati negativi italiani. Nel 2007 solo il 7% dei laureati si è diplomato in una materia scientifica. Fra i pochi iscritti a queste facoltà, in continuo calo, il tasso di abbandono è superiore al 20% (il 25% nel 2005). In questo contesto, negli ultimi trent’anni l’Italia ha investito in ricerca e sviluppo fra l’1,1 e l’1,3% del Pil, la metà della media europea. Ma nessun partito, osserva ancora Cadelo, ha mai inserito la ricerca scientifica nei suoi programmi elettorali e di governo. Dai trasporti alle infrastrutture, agli Ogm, a numerosi altri settori, “qualsiasi dato analizziamo non ne troviamo uno solo a nostro favore” è la sconsolata conclusione dell’autore.

Sul banco degli imputati Cadelo pone il celebre Rapporto sui limiti dello sviluppo, elaborato nel 1972 dal Club di Roma: scienziati ed economisti che hanno clamorosamente “toppato” tutte le previsioni, semplicemente perché non avevano valutato adeguatamente lo sviluppo della scienza e delle tecnologie. Il fallace catastrofismo del Club di Roma, del resto, aveva avuto un illustre predecessore in Robert Malthus, le cui apocalittiche previsioni demografiche si sono rivelate completamente sbagliate. “Le bocche si moltiplicano geometricamente e il cibo solo aritmeticamente” sosteneva Malthus, trascurando il fatto che anche la mente umana, fattore decisivo dell’economia politica, procede di pari passo con lo sviluppo generale, e che dunque la crescita della società sarebbe stata accompagnata da un’altrettanta forte crescita del potere di invenzione.

L’ecologismo moderno affonda le sue radici in un crogiuolo nel quale sono fuse le culture più diverse, a volte anche antitetiche, accomunate dall’idea che la modernità sia la causa dei mali dell’uomo. Esso ha i suoi antenati illustri in Walther Darré, dal 1933 al 1942 ministro dell’agricoltura del Terzo Reich; e prima ancora in Rousseau, che 250 anni fa scriveva: “Popoli, sappiate dunque una buona volta che la natura ha voluto preservarvi dalla scienza, come una madre strappa dalle mani del suo bambino un’arma pericolosa, che tutti i segreti che vi cela sono altrettanti mali da cui vi protegge”. Concetti non molto dissimili da quelli – desolanti – espressi oggi dai molti e agguerriti nemici della scienza e della modernità.