In risposta all’articolo di Maurizio Ferrera “Unioni civili: attenzione al test della libertà”, Salvatore Carrubba mette in evidenza i pericoli dell’elevazione delle preferenze individuali a unico criterio definitorio dei nuovi diritti delle coppie di fatto.
Ho molto apprezzato lo spirito liberale che anima il recente intervento di Maurizio Ferrera sul tema delle unioni civili. Con lo stesso spirito, vorrei avanzare qui qualche riserva sulle sue conclusioni.
A me pare che nel dibattito in corso si faccia confusione su un punto fondamentale, ossia l’esigenza (ovviamente liberale) di non discriminare in situazioni eguali secondo le condizioni individuali. Da questo punto di vista, i liberali non possono tollerare che sia vietato il matrimonio fra bianchi e neri, ebrei e gentili, poveri e ricchi, settentrionali e meridionali. D’altra parte, ciascuno deve essere libero di perseguire le proprie scelte affettive e, dunque, una società non può perseguitare le preferenze individuali, reprimerle (questo è il punto sollevato da Mill) e negare loro forme di riconoscimento sociale. Fin qui, tutti d’accordo, immagino; e dunque, a favore di interventi legislativi che riconoscano, nel caso in discussione, libertà individuali e diritti reciproci derivanti dalle unioni omosessuali.
Il punto di dissenso riguarda il matrimonio, con tutte le conseguenze derivanti e ampiamente previste dal suo riconoscimento: qui anche un liberale può sottolineare che, trattandosi di situazioni diverse, di disparità non si può parlare ma, se mai, di necessità di riconoscere e normare situazioni particolari quali appunto le unioni omosessuali.
Perché le situazioni sono diverse? Perché il matrimonio non si limita a dare contenuto giuridico e riconoscimento sociale all’unione di due persone (e in questo caso sarebbe effettivamente inutile e ingiusto discriminare se dello stesso o di diversi sessi), ma assolve alla funzione sociale di assicurare la continuazione della specie: un grande studioso di welfare come Maurizio Ferrera non potrà sottovalutare l’importanza del punto. Per questo, la “costituzione più bella del mondo” non sbaglia (né mostra di risentire dei tempi in cui fu scritta) quando all’art. 29 riconosce la base naturale del matrimonio. Ma vi sono altri aspetti che mi lasciano perplesso, da un punto di vista liberale, sull’elevazione delle preferenze individuali a unico criterio definitorio dei nuovi diritti: se così fosse, che diritto avremmo di negare il riconoscimento della poligamia, che la religione di tanti nostri nuovi connazionali riconosce? E, ancora, i liberali non avrebbero nulla da dire sulla pratica che fatalmente si diffonderebbe dell’utero in affitto, e che non potrebbe che dare vita a nuove forme di soggezione se non di vera e propria schiavitù? Non è difficile immaginare la fioritura di un mercato fiorente di uteri controllati e certificati, non certo animato dall’impegno di rispettare la condizione e la dignità della donna.
Per questo, mi tornano in mente le pagine, che mi paiono profetiche, di un altro grande liberale che so caro a Ferrera, Ralf Dahrendorf. Il quale, innanzi tutto, sottolineava l’inopportunità di affidare la trattazione e la decisione su questioni etiche a organi di esclusiva estrazione politica (quale il Parlamento, dove la maggioranza che si forma su tali questioni è necessariamente «tiranna», per dirla con Maurizio Ferrera), e invocava piuttosto l’intervento di «consessi non eletti». Ma non è solo questione di metodo. Il grande filosofo delle “chances di vita” nel 2003 scriveva: «Le possibilità di scelta debbono avere un senso. Ma ciò avviene solo quando esse siano inserite in un certo quadro di valori che fornisce dei criteri di valutazione. Qui sta la grande e minacciosa debolezza di un atteggiamento post-moderno, quello dell’anything goes, vale a dire della sostanziale indifferenza di qualunque opzione. Se non ha importanza quel che scegliamo… se dunque nulla fa differenza, allora tutto diventa indifferente, non solo, ma insorge anche una generale assenza di direzione e di orientamento. Non è questa la libertà assoluta, l’Arcadia di Rousseau; più probabile in questa situazione è la guerra di tutti contro tutti di Hobbes… L’anomia è il punto in cui la massima liberà si converte in massima illibertà». Per questo, Dahrendorf concludeva segnalando l’esigenza imprescindibile che le opzioni siano «accompagnate da legature (che) sono vincoli profondi la cui presenza dà senso alle possibilità di scelta. Sono per così dire il cemento che tiene insieme le società. Le si può anche definire il lato interiore, soggettivo, delle norme che garantiscono le strutture sociali». Queste parole non rappresentano un’involuzione senile; già nel 1979, infatti, Dahrendorf aveva scritto, a proposito delle legature, che «la società non può essere totalmente anomica, disarticolata, dissolta in individui isolati». Mi scuso per la lunghezza delle citazioni ma credo ne valesse la pena: io non potrei dire meglio.
C’è un ultimo punto sul quale dovrebbero riflettere i liberali, per i quali uno dei pochi articoli di fede è che l’unico limite alla libertà personale sta nel non danneggiare gli altri. Se davvero (ma l’esito pare fatale) le norme in discussione aprissero la strada alla stepchild adoption, che garanzia avremmo di non danneggiare i bambini che ne saranno coinvolti? Non sono certamente pochi gli studiosi (non necessariamente di parte cattolica) che sottolineano i rischi per un bambino di crescere senza godere della doppia sensibilità e affettività maschile e femminile. Non vedo allora perché il principio di cautela debba essere applicato (secondo me, sconsideratamente) alle sperimentazioni su granoturco e fagiolini, ma non a quelle condotte in corpore vili, cioè su chi non può dire la sua.
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