“Quello che Craxi ha fatto merita ancora di essere studiato, discusso, compreso. E’ una storia importante, forte”. Suona come un accorato appello la conclusione dell’autobiografia Claudio Martelli Ricordati di vivere (Bompiani 2013) seicento pagine fitte di ricordi malinconici e grondanti di nostalgia. Un libro imperdibile per tutti coloro che hanno fatto politica militante in quegli anni lontani, che tuttavia non offre allo studioso molti elementi di valutazione aggiuntivi rispetto a quelli già noti e acquisiti dalla cronaca. Al netto dei fatti risaputi, Martelli propone aneddoti, ricordi personali e un’analisi politica che, nelle rivendicazioni e nelle ammissioni, è esattamente quella che ci si aspetta da lui. Con una prosa dal tono ispirato, ricca di citazioni e riferimenti culturali, l’ex ministro conferma non solo che la classe politica della Prima Repubblica era infinitamente più preparata e seria dell’attuale, ma che egli stesso, pure in quel contesto, emergeva come uno degli esponenti più colti e brillanti. Intellettuale raffinato e politico scaltro, rivendica con forza i meriti suoi e di Craxi, mentre denuncia con rabbia le molte ingiustizie patite. Fra tutti, l’elemento che più colpisce, in questa ricostruzione, riguarda la storia professionale e umana di Giovanni Falcone. L’intrecciarsi delle vicende politiche con quelle giudiziarie, il sovrapporsi delle inchieste per corruzione con quelle per mafia, rischiano di ingenerare nella memoria collettiva della nazione un pericoloso errore di percezione.
1. “Falcone ha cominciato a morire il primo gennaio del 1988” hanno detto prima Caponnetto e poi Borsellino. In quella data infatti, il giudice che aveva assicurato alla giustizia i più pericolosi boss mafiosi, viene inspiegabilmente penalizzato e messo in disparte. Alla guida della procura di Palermo il Csm gli preferisce Antonino Meli, che subito si preoccupa di sciogliere il pool antimafia e di spezzettare le indagini in tante piccole inchieste sulle cosche locali, negando l’esistenza di una struttura verticistica dell’organizzazione criminale.
L’anno seguente, scampato fortuitamente a un attentato nella villa affittata per le vacanze, il giudice subisce un attacco ignobile: dagli ambienti politici vicini a Leoluca Orlando Cascio viene propalata la voce che Falcone si sarebbe auto-organizzato un finto attentato a scopo pubblicitario e carrieristico. Lo testimonia Gerardo Chiaromonte, presidente comunista della Commissione parlamentare antimafia.
Quando Falcone ottiene la nomina a Procuratore capo aggiunto (con Pietro Giammanco) e riprende con successo il suo lavoro a stretto contatto con l’Fbi, inizia la stagione delle lettere anonime, del Palazzo dei Veleni, del “corvo”, mentre le indagini sull’attentato dell’Addaura (alcuni protagonisti sono brutalmente eliminati) finiscono nel nulla. Falcone confida: “In Sicilia le cose vanno così: prima ti isolano, poi ti sporcano, infine ti ammazzano”.
Un altro magistrato, Libero Mancuso, trova il pentito Pellegriti che accusa importanti esponenti politici. Falcone non è convinto, interroga il teste, non gli crede e lo incrimina per calunnia. Si scatena una nuova offensiva contro di lui, orchestrata da Alfredo Galasso, Carmine Mancuso, Nando Dalla Chiesa e dal già citato sindaco di Palermo Orlando Cascio, che nel maggio ’90, ospite di Michele Santoro a Samarcanda, accusa apertamente Falcone di tenere chiuse nei cassetti le carte che inchioderebbero i politici responsabili dei delitti, il cosiddetto “terzo livello”. Probabilmente oggi pochi ricordano la virulenza degli attacchi di Orlando, rieletto nel 2012 per la quarta volta sindaco di Palermo con l’Italia dei valori.
2. Nel febbraio ‘91 Martelli è ministro della Giustizia e chiama Falcone alla direzione generale degli Affari penali. La campagna contro il magistrato si riaccende, è bersaglio di un esposto al Csm da parte dei già nominati Galasso, Carmine Mancuso, Orlando e altri “professionisti dell’Antimafia” (secondo la celebre definizione di Sciascia). In oltre 12 pagine, Martelli riporta in dettaglio i verbali di quell’interrogatorio, “alle nove e trenta del 15 ottobre 1991”, quando Falcone compare davanti alla prima commissione del Csm per difendersi da coloro che tentano di screditarlo. “Questo è un linciaggio morale continuo” è il doloroso allarme del giudice. Leggere oggi quei verbali può costituire una sorpresa per alcuni, un buon promemoria per gli altri.
Intanto Martelli impedisce in extremis la scarcerazione dei boss mafiosi e, incurante di avvertimenti e intimidazioni che iniziano a colpirlo, vara la Direzione nazionale antimafia. La cosiddetta “superprocura” scatena la reazione della magistratura organizzata e dell’opposizione di sinistra, un fuoco di sbarramento che si intensifica quando Martelli propone nell’incarico proprio Falcone. “Solitaria eccezione, e per questo ancora più coraggiosa, fu il sostegno esplicito che ricevemmo da Gerardo Chiaromonte, consapevole dell’avversione di gran parte del suo partito nei confronti di Falcone”. Questi è accusato di non offrire garanzie di indipendenza, in quanto legato al ministero. Il Csm infatti nomina procuratore nazionale Agostino Cordova, ma Martelli si oppone, blocca la procedura e, forte di un precedente pronunciamento della Corte costituzionale, impone Falcone stesso.
Quando Salvo Lima viene ammazzato a Palermo, in marzo, il magistrato capisce: “Adesso può succedere di tutto”. Pochi mesi dopo tocca a lui, a sua moglie e alla scorta.
Martelli fa trasferire lontano da Palermo i boss, che vengono sottoposti a isolamento e carcere duro; garantisce protezione ai pentiti; ripristina le carceri speciali di Pianosa e Asinara; fa sequestrare proprietà e capitali ai mafiosi. Negli stessi giorni in cui evita un attentato dinamitardo a Messina (gennaio ’93) viene catturato Totò Riina. “In pochi mesi la situazione sul campo era rovesciata. Lo Stato era passato all’attacco, un attacco coordinato, determinato, costante e coerente”. A febbraio, a seguito dei noti fatti, Martelli lascia il ministero e segue la sorte, più o meno, di tanti altri uomini e partiti della Prima Repubblica. Dovrà affrontare lunghi processi, dai quali uscirà pressoché indenne, mentre il suo successore, l’insigne giurista e dunque “tecnico” Giovanni Conso, propone – pochi mesi dopo – la sospensione del carcere duro per i mafiosi.
3. Se il nome di Giovanni Falcone è ormai scolpito nella coscienza collettiva italiana, così non è per Claudio Martelli, che sembra soffrire di una condanna della memoria: è stato il ministro della Giustizia che più di ogni altro ha rischiato e si è battuto contro la mafia e la criminalità organizzata; è stato anche – non c’è possibilità di equivoco su questo – l’uomo politico operativamente e umanamente più vicino a Falcone. Eppure verrà ricordato, dai più, come un partitocrate di dubbia onestà, mentre il giustizialista Leoluca Orlando sarebbe un paladino della lotta alle cosche. C’è qualcosa che non quadra.
In un incontro con Leonardo Sciascia, Martelli riceve in regalo una copia de “I Vicerè”: “Leggilo. E’ passato un secolo, ma non è cambiato niente”. Omaggio bizzarro, per una persona che ha fatto del ruolo di “vice” quasi una predestinazione: vice-segretario del Psi, vice-Presidente del Consiglio. Sembra dedicato a Martelli anche il titolo che Sciascia ha dato alla sua raccolta di scritti sulla Sicilia, la giustizia e la mafia: “A futura memoria (se la memoria ha un futuro)”.
© Riproduzione riservata