1918, Café Landmann di Vienna. Max Weber incontra Joseph Schumpeter. Weber guarda con orrore al “grande esperimento” della rivoluzione bolscevica, Schumpeter invece si rallegra del fatto che finalmente “il socialismo non sarà più una mera discussione accademica”. Weber si inquieta, la rivoluzione in Russia è “un crimine che si risolverà in una catastrofe”, ma Schumpeter ribatte che in ogni caso si tratterà di “un bel laboratorio”. “Con cumuli di cadaveri…!” si indigna Weber, Schumpeter serafico nota che di cadaveri sono pieni tutti i laboratori di anatomia. Weber perde le staffe, urla: “Tutto ciò è intollerabile!” e se ne va sdegnato, mentre Schumpeter beffardo gli ricorda le buone maniere. L’aneddoto che rappresenta icasticamente il dibattito sulle idee politiche del Novecento è raccontato da Felix Somary, imbarazzato testimone.

1. Un secolo (breve) più tardi, possiamo convenire che Weber aveva ragione, e da vendere. Nel frattempo, anche restando al solo campo delle idee, sono successe parecchie cose, analizzate compiutamente da Jan-Werner Muller nel bel libro L’enigma democrazia – Le idee politiche nell’Europa del Novecento (Einaudi, 350 pagine). Tanti sono gli spunti di quest’opera, così completa, da rendere impossibile anche solo tentare un riassunto. La chiave di lettura dell’autore è sempre originale, curiosa, mai scontata. Muller indaga anche su numerose personalità minori (le chiama “figure infiltrate”) e assegna un carattere emblematico a episodi apparentemente trascurabili, eppure significativi, come quello appena citato. Nel recensire il libro sul “Corriere della Sera” del 6 settembre 2013 (La democrazia liberale non è l’ultima parola in Europa), Michele Salvati si è concentrato su alcune tesi fondamentali del volume: la natura “non rappresentativa”, in un certo senso a-democratica, delle istituzioni emerse dopo la seconda guerra mondiale, dalle Corti costituzionali all’Unione europea, ad altre ancora; il primato cristiano-democratico (e non socialdemocratico) nella costruzione del Welfare State, ispirato dal “personalismo” di Maritain; ma soprattutto l’idea che la democrazia liberale non sia affatto la condizione “necessariamente predefinita” dell’Europa occidentale. “Non vedo motivo di andare particolarmente fieri dell’ordinamento costituzionale assunto dall’Europa occidentale del dopoguerra”, scrive Muller, suscitando l’entusiasmo di Salvati.

Per parte nostra, vorremmo richiamare l’attenzione sull’interrogativo che Muller pone all’inizio del sesto e ultimo capitolo, dove si chiede: “Come fece l’Europa occidentale a passare da ciò che Habermas definiva negli anni Settanta come una ‘crisi di legittimità del tardo capitalismo’ e da quella che Michel Foucault aveva annunciato già alla fine degli anni Sessanta come ‘la morte dell’uomo’ (che fra le tante altre cose sembrava indicare la fine delle illusioni dell’individualismo liberale) al presunto liberalismo trionfalistico di un Francis Fukuyama alla fine degli anni Ottanta, all’esplicita rivincita degli apologeti del capitalismo, come Hayek, e al discredito – apparentemente senza possibilità di appello – del modello politico leninista?” Rispondere a questa domanda è relativamente semplice. Il fallimento planetario del comunismo – rubiamo l’espressione a Luciano Pellicani – ha sancito non solo il “discredito” del modello leninista, definitivamente rubricato fra i sistemi totalitari e dittatoriali, ma ha anche trascinato con sé i fondamenti economico-filosofici del marxismo, tutti, dunque anche quelli neo-comunisti egemoni nella lunga stagione del ’68 europeo. Quindi anche Mao, anche Marcuse, anche Sartre e tutti gli altri.

Le “dure repliche della storia”, un po’ ovunque, hanno fatto piazza pulita di tutte le ubriacature ideologiche di trotzkisti, situazionisti, spontaneisti e confusionari a vario titolo. Così i liberali hanno potuto prendersi la loro rivincita. Sotto questo profilo, il libro di Muller è contraddittorio. Nel paragrafo finale l’autore scrive che “contrariamente al cliché universalmente accettato, il 1989 non ha segnato la fine della teoria marxista”, almeno per quanti la considerano tuttora valida “come metodo e non come dogma”. Ma poi si preoccupa di aggiungere che “il marxismo come teoria è stato del tutto smentito dal collasso dell’Urss: in realtà (…) era già stato smentito fin dagli inizi dell’Unione sovietica”. Dunque su questo argomento l’incertezza del giudizio permane.

2. Anche la lettura del ’68, da parte di Muller, risulta poco convincente. L’autore dedica uno spazio spropositato a fumisterie ideologiche marginali e ad astruse teorie ultra-minoritarie, come quelle già citate dei situazionisti, dei “Quaderni Rossi” di Raniero Panzieri, di personaggi come il leader dell’Autonomia Toni Negri, fino ai gruppi terroristici come la RAF tedesca e le Brigate rosse italiane. Davvero troppo credito, in una storia delle idee politiche. La distinzione fra il ’68 libertario e quello neo-comunista avrebbe meritato una sottolineatura più forte e chiara. Sarebbe stato utile, inoltre, dedicare un approfondimento agli equilibri internazionali e alla Guerra Fredda, fattori che hanno condizionato la politica e la cultura europee in misura assai più marcata di quanto non risulti da questo libro.

Invece Muller sostiene che “la competizione con i paesi dell’est era una preoccupazione rilevante ma, in ultima analisi, secondaria”. Un’affermazione tutta da dimostrare. Inoltre – ma questa è una nota marginale - dopo i fatti di piazza Tienanmen, l’autore definisce l’ascesa della potenza cinese “un comunismo guidato dal mercato”, ciò che a noi sommessamente pare un perfetto rovesciamento dei termini. Nel corso di tutto il volume, Muller insiste spesso sui limiti del liberalismo, della democrazia, degli equilibri politico-istituzionali sorti nella seconda metà del secolo. L’autore mette in guardia da “forme di autocompiacimento liberale che noi occidentali possiamo difficilmente permetterci” e invita il lettore a spegnere ogni “confortante illusione” a questo riguardo: “la democrazia è incertezza istituzionalizzata” sono le parole conclusive del libro.

3. Ma proprio questa incertezza, ben lungi dall’essere un “enigma”, costituisce invece il vero punto di forza non solo della democrazia politica, ma anche del liberalismo economico. Se l’essere umano è fortemente imperfetto, una democrazia incerta è l’assetto istituzionale più consono e aderente alla sua natura, e un’economia di mercato l’unico terreno utile a correggerne razionalmente i ripetuti errori.

Le ricorrenti crisi del capitalismo, per quanto gravi e difficili da gestire (come quella attuale) non dovrebbero ingannare gli intellettuali fino al punto da indurli a negare questa elementare realtà. La democrazia liberale non sarà forse “necessariamente predefinita” come scrive Muller, non sarà “l’ultima parola in Europa” come sostiene Salvati, ma sicuramente continua a essere l’unico sistema civile per sconfiggere anche culturalmente gli errori e gli orrori del Novecento.