Difficoltà economiche, scelte politiche sbagliate, corruzione e violenze hanno portato il Venezuela sull’orlo del collasso. Il governo di Maduro è a un passo da una crisi irreversibile. Il movimento bolivariano può provare a salvarsi accettando il referendum per la destituzione del presidente. Oppure può scegliere lo scontro con l’opposizione, minacciando i fondamenti democratici del paese e rischiando lo scontro sociale.

Ricordi

Nel 2000 ho avuto la fortuna di visitare Caracas ospite di amici. Erano i mesi successivi alla valanga d'acqua e fango che dal monte Avila (2.800 metri) ha causato numerose vittime tra i residenti delle sottostanti baraccopoli. Ricordo che il clima nella capitale era per teso. Il malcontento palpabile. La sicurezza non era garantita, soprattutto per i residenti delle classi più agiate e, non a caso, qualche settimana prima del mio arrivo una parente dei miei ospiti era stata vittima di un sequestro lampo. Al tempo Hugo Chávez era in piena campagna elettorale per la rielezione dopo la vittoria del 1998 e si confermava nella linea di dittatoriale-populista che gli avrebbe guadagnato altre die rielezioni nel 2000, nel 2006 e nel 2012.

Di quei giorni, più che la promessa di rafforzamento della democrazia sociale partecipativa, ricordo le enfatiche promesse di ridistribuzione della ricchezza e aiuto diretto ai più poveri veicolate dalle emittenti televisive e da enormi cartelloni pubblicitari. Promesse di un nuovo socialismo che nel 2003 porteranno al programma delle Missioni Bolivariane i cui obiettivi principali sono la lotta alla povertà, alle malattie, alla malnutrizione, all’analfabetismo, all’esclusione e agli altri mali sociali provocati dal capitalismo selvaggio.

All’epoca Limes sottolineava come il caudillo militare di Hugo Chávez suscitasse speranze ma anche molte preoccupazioni per il suo appellarsi direttamente al popolo, il fare  leva sulle Forze armate e la vicinanza a stati dittatoriali come Cuba, la Libia di Mu'ammar Gheddafi e l'Iran. Molto criticati sono  anche stati i grossi investimenti voluti in Bolivia, Cuba, Argentina per puri interessi politici.

Hugo e Nicolás

Dal 2013, con la malattia e il ritiro dalla scena politica di Chávez, siede al governo il successore designato, Nicolás Maduro.

Entrambi i leader sono saliti al potere in un periodo di forte crisi economica e politica. All’epoca della prima elezione di Chávez a essere in crisi era il modello economico basato sulla rendita petrolifera e l’accordo tra i principali partiti politici per un governo di unità nazionale. La sua ascesa, in particolare, è stata descritta come l’esito della degenerazione del sistema politico venezuelano verso la corruzione, il clientelismo e il crescente deterioramento delle condizioni di vita della popolazione, favorito dall’applicazione di programmi di adeguamento strutturale di ispirazione neoliberale (tagli ai programmi sociali, in particolare nella sanità e nell’istruzione).

Nel caso di Maduro, il Venezuela si presentava come un paese economicamente indebolito in cui la rivoluzione bolivariana aveva garantito sostegno politico e appoggio elettorale, ma non aveva permesso di mettere in piedi un sistema economico produttivo solido e autonomo (il Venezuela importa quasi tutto a esclusione del petrolio).

Maduro non sembra però avere il carisma del predecessore, né la sua sagacia
politica. E sono diversi quelli che oggi ne stanno rivalutando i meriti. In politica interna per la sua capacità di mantenere l’ordine sociale e la convivenza pacifica tra strati di popolazione molto diversi per reddito e opportunità. In politica estera per la capacità di sostenere il ruolo commerciale del Venezuela andando contro il Washington Consensus e sostenendo modelli di sviluppo economico alternativi in cooperazione con altri paesi sudamericani. Oggi, come dimostra il dibattito elettorale su TTP e TTIP, il peso del Mercosur nella geografia mondiale degli accordi commerciali risulta molto ridimensionato, forse anche per l’incapacità del nuovo leader di proseguire il lavoro diplomatico fatto di Chávez.

Sull’orlo del baratro

Oggi il Venezuela è un paese al collasso. L‘inflazione è arrivata al 180%, il Pil è calato di quasi il 6% nel 2015 e per il 2016 il Fondo Monetario Internazionale stima una ulteriore contrazione dell’8% e un’inflazione al 720%

 

Figura 1 - Andamento Pil /Inflazione dal 1986 al 2015

Asse X: Nominal GDP (Billions of US dollars); Asse Y: Inflation rate, end of period consumer prices (Annual % change)

 

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          Fonte: elaborazione su dati IFM, World Economic Outlook (April 2016)

 

Nonostante le ricche riserve petrolifere, l’economia nazionale è sull'orlo del fallimento affossata dal basso costo del petrolio e da decisioni politiche dissennate. I supermercati sono vuoti e, insieme ai generi di prima necessità, non arrivano più nemmeno i farmaci. Numerosi sono i blocchi programmati di energia, acqua e lavoro (per risparmiare energia elettrica la settimana lavorativa del settore pubblico è stata ridotta di due giorni e si è deciso il cambio di fuso orario) Nell’impossibilità di poter accedere alle valute estere (dollari e euro) per importare le materie prime o pagare gli stipendi anche le grandi imprese nazionali (Polar) e estere (Coca-Cola, Lufthansa) si fermano. Le forze armate guadagnano spazi in diversi settori economici lasciando che corruzione e criminalità raggiungano livelli elevatissimi. Secondo la magistratura nei primi tre mesi dell’anno gli omicidi sarebbero stati addirittura 5mila.

La popolazione civile, la cui volontà politica - lo ricordiamo - si è espressa a favore della coalizione Unione Democratica (Mud) nelle elezioni legislative dello scorso dicembre e che un mese fa consegnato quasi 2 milioni di firme per indire un referendum per la destituzione di Maduro, è allo stremo e vicina alla rivolta. Scioperi e manifestazioni anti-chaviste sono quotidiani e sfociano spesso in saccheggi e atti di violenza.

Se, come auspica il National Election Council (Cne) a maggioranza filo-governativa, il referendum sulla destituzione del presidente fosse celebrato dopo il 10 gennaio 2017, l’eventuale destituzione di Maduro non sarebbe seguita da elezioni anticipate ma dall’entrata in carica di Aristóbulo Istúriz (nominato vicepresidente a gennaio di quest’anno) sino al termine del mandato, nel 2019. Ma difficilmente il Cne riuscirà rimandare così a lungo la decisione sulla costituzionalità del referendum richiesto dalla Mud (coalizione delle opposizioni). Governo e opposizioni si lanciano accuse reciproche, ma non si parlano. A metà maggio, mentre il vicepresidente Aristobulo Isturiz annunciava che non si sarebbe tenuto alcun referendum, il presidente dichiarava 60 giorni di stato d'emergenza contro un presunto golpe ordito dagli Stati Uniti e ordinava manovre militari senza precedenti. Maduro ha anche disposto il sequestro di tutte le fabbriche che hanno interrotto la produzione e l'arresto dei loro proprietari, minacciando un nuovo giro di nazionalizzazioni.

Una situazione non più sostenibile, che secondo il leader dell'opposizione Henrique Capriles rischia di esplodere se non si terrà il referendum per la revoca del presidente.

L’isolamento e la paura dell’accerchiamento

In questo quadro drammatico, che alcuni analisti paragonano al Cile prima del golpe di Pinochet, Maduro fa esternazioni che rasentano la paranoia. Oltre a paragonarsi esso stesso al presidente cileno Salvador Allende, forte eco mediatico hanno avuto le accuse rivolte ai governi stranieri (Usa in primis) di giocare contro il Paese una spietata campagna mediatica e politica. Una campagna a cui parteciperebbero anche gli imprenditori, accusati dal Psuv, il partito di Maduro, di vile boicottaggio contro il regime chavista. Il Presidente venezuelano ha anche affermato che l'impeachment di Dilma Rousseff in Brasile è un segno che il prossimo sulla lista di Washington sarà il suo governo.

Al di là delle illazioni di Maduro, certo è il crescente isolamento del paese. Cuba, nonostante le recenti affermazioni di solidarietà con Il Venezuela, prosegue nel riavvicinamento agli Stati Uniti. Diversi tra gli alleati sudamericani del blocco chavista hanno perso il potere (i Kirchner in Argentina) o rischiano di perderlo (il Pt in Brasile). Aumentano anche le posizioni di quanti mettono in dubbio la democraticità del Venezuela (è il caso del neopresidente argentino Mauricio Macri al suo primo vertice del Mercosur e di Luis Almagro,  segretario dell’Organizzazione degli Stati Americani)

Dunque quale sarà il destino del Venezuela? Dirlo non è facile, anche perché la crisi venezuelana si inserisce in un più ampio processo di riassestamento che coinvolge anche il Brasile e l Argentina. Probabilmente il referendum contro Maduro, quand’anche fosse confermato, non risolverebbe la situazione. L’esempio del fallimento dei recenti movimenti anti dittatoriali induce a una certa cautela nell’invocare la sollevazione popolare. Se si vuole uscire dalla crisi e evitare l’esplosione del conflitto sociale occorrerà un accordo politico interno con l’avvallo delle potenze straniere. Il Venezuela ha gli strumenti politici per raggiungere questo obiettivo e i recenti accordi con la Cina per ottenere nuovi finanziamenti e agevolazioni in cambio rifornimenti petroliferi dare un po’ di respiro all’economia venezuelana e le permettono di ripagare parte dei debiti e interessi maturati. È anche vero che la fame non rispetta i tempi della politica e che i crescenti malumori tra i vertici militari sono segnali preoccupanti. Così come è vero che contrarre pesanti debiti nei riguardi di economie straniere (negli ultimi dieci anni Pechino ha prestato a Caracas oltre 50 miliardi di dollari) non pare essere la strada migliore per gettare le basi della rinascita venezuelana.