Il recente ingresso delle truppe irachene a Mosul non  deve portare a conclusioni affrettate: la presa della città sarà probabilmente lunga e non del tutto risolutiva.

Il 17 ottobre il premier Haidar al-Abadi aveva annunciato l’inizio della tanto attesa, e più volte preannunciata, offensiva contro la città di Mosul, che rappresenta l’ultima roccaforte in mano all’ISIS sul territorio iracheno (anche se esistono ancora altre sacche di resistenza). Tale offensiva giunge a conclusione di una serie di operazioni minori, avvenute nei mesi scorsi per preparare il terreno all’assalto finale. È il caso, ad esempio, della conquista della cittadina di Shirqat e della base aerea di Qayyarah, risultata fondamentale per due ragioni. In primo luogo, perché permette alle forze impegnate nell’attacco di contare su un flusso di costante rifornimenti, al riparo da possibili attacchi condotti con IED (ordigni improvvisati) o attentatori suicidi. In secondo luogo, perché una base aerea così vicino al fronte rappresenta il punto di lancio ottimale per le Forze Speciali impiegate in ruoli di ricognizione o in operazioni a fianco delle truppe irachene e dei Peshmerga.

Oltre alle forze irachene impegnate nel fronte Sud ed Est e ai Peshmerga impegnati a Nord ed Est, l’azione su Mosul ha coinvolto anche contingenti americani e francesi (in supporto dei precedenti) e forze turche, che però giocano una partita tutta loro. Il piano strategico americano, probabilmente, vuole ripetere quanto già fatto a Falluja, ovvero isolare la città per poi iniziare un’operazione (che però rischia di essere alquanto lunga e sanguinosa) di rastrellamento casa per casa.

Con la recente conquista della torre della televisione nella parte più esterna della città potrebbe sembrare che l’avanzata verso Mosul sia stata rapida, ma bisogna tener presente che il grosso delle forze è più arretrato, impegnato ancora in combattimenti di retrovia, e che penetrare poi nell’abitato comporta alti rischi e molta cautela. Le contro-offensive messe in campo da ISIS - attentatori suicidi (diverse decine nei primi giorni dell’offensiva), IED, tunnel e cecchini lungo le direttrici di attacco nemiche - non hanno infatti l’obiettivo di difendere strenuamente il limite dei territori occupati, ma di rallentare l’avanzata nemica, causando il maggiore costo umano possibile. Una difesa statica sarebbe un suicidio per un gruppo militarmente più debole, come è appunto ISIS. E non è dunque un caso che, dopo appena 48 ore dall’inizio dell’operazione, si fosse decisa una pausa operativa con il duplice obiettivo di ripulire le zone conquistate e far affluire rinforzi.

Non avendo miliziani sufficienti per difendere l’intera città ISIS concentrerà probabilmente i propri sforzi difensivi su alcune particolari aree o edifici simbolici con l’obbiettivo di impedire al nemico di dichiarare la vittoria il più a lungo possibile. Ma l’assalto condotto a Kirkuk dimostra come ISIS possa anche compiere efficaci e sanguinose azioni di disturbo in teatri lontani e tendenzialmente tranquilli. In quest’ottica, i segni di resistenza a Hamdaniya e le operazioni a Sinjar devono essere letti come mezzi per distrarre le truppe irachene e diluirne la forza.

Una situazione che, dal punto di vista dell’Italia, non è priva di rischi, considerato che truppe di connazionali sono tutt’oggi dislocate a pochi chilometri dal fronte con lo scopo di garantire la sicurezza dei lavori di manutenzione della diga di Mosul, dove si sono già registrati alcuni attacchi.

Anche l’esercito regolare iracheno non ha le forze sufficienti per conquistare da solo la città, per questo la cooperazione con i Peshmerga è centrale. Ben più complesso è il ruolo delle milizie sciite come Kata’ib Hezbollah e Asa’ib Ahl al-Haq, che hanno assunto un peso rilevante e al contempo preoccupante. Il timore fondato è non solo che porterebbero avanti la loro agenda politica (che non necessariamente corrisponde con quella occidentale e di Baghdad), ma che quasi certamente si macchierebbero anche di gravi ritorsioni contro la locale popolazione sunnita. Proprio per questo, il premier iracheno ha dichiarato che tali milizie non saranno coinvolte, ma dichiarazioni simili erano state fatte anche prima della riconquista delle città di Ramadi e Falluja ed erano poi state smentite con conseguenti gravi atti di violenza settaria. In questo senso non sono di buon auspicio nè il fatto che il 15 ottobre il premier Abadi abbia ricevuto alti comandanti iraniani legati alle milizie sciite per discutere dell’operazione a Mosul; nè che nei giorni scorsi le milizie sciite abbiano aperto il fronte a ovest di Mosul cercando di conquistare la cittadina di Tal Afar e chiudendo così la possibile via di fuga verso la Siria.

Da un punto di vista operativo, e alla luce delle recenti conquiste, ci sono pochi dubbi che l’operazione possa avere successo.  I tempi per raggiungere questo risultato, le modalità e i costi umani di una battaglia urbana che rischia di essere lunga e sanguinosa sono invece tutti da valutare. Il vero nocciolo problematico risiede negli intrecci geopolitici che si nascondono dietro questa operazione e nel fatto che, qualunque sarà il risultato finale, non potrà rappresentare la sconfitta di ISIS.

Iniziamo da quest’ultimo punto. Collegare la caduta di Mosul alla sconfitta di ISIS è un enorme errore, prima di tutto perché ISIS ha già dimostrato in passato di essere estremamente fluido e capace non solo di sfuggire tra le maglie delle linee nemiche, ma anche, e cosa ben più rilevante, di sparire e rifugiarsi tra la popolazione locale. Fece così dopo il 2007 riuscendo a sopravvivere per poi lanciare una vera e propria campagna di omicidi mirati contro amministratori locali e forze dell’ordine. Tale modalità operativa permise a ISIS di sradicare il governo centrale della provincia di Ninawa e ciò spiega la facilità e velocità con cui conquistò proprio Mosul nel giugno 2014. Quell’operazione militare fu semplicemente il coronamento di una campagna ben più complessa, radicata e lunga che aveva preparato il terreno per la spallata finale.

Dunque, per sconfiggere realmente ISIS, sempre che ciò sia possibile nel breve/medio termine, la campagna militare per strappargli il terreno conquistato è sì fondamentale, ma non esaurisce la strategia complessiva. L’aspetto fondamentale è localizzare e colpire la rete di contatti e di supporto che permette al gruppo di essere così radicato. Come hanno spiegato alcuni analisti esiste il rischio concreto che ISIS passi da una strategia di controllo del territorio, che lo espone direttamente al nemico, a una che sfrutti i suoi collegamenti locali, ovvero una strategia “underground” capace però di rendere il gruppo resiliente e in grado di sopravvivere. Detto altrimenti, ISIS si è già dimostrato in grado di mutare forma e passare da gruppo terroristico puro a gruppo guerrigliero in grado di controllare e amministrare territorio, e non vi è ragione di credere che non possa mutare nuovamente tornando a una forma più consona alla situazione strategica del momento.

Per evitare che ciò avvenga bisogna iniziare sia a sviluppare dei progetti di controllo del territorio, di stabilizzazione e ricostruzione sia ragionare sul lungo periodo. Michael Knights, uno dei maggiori esperti di questioni irachene, ha sottolineato come sia assolutamente necessario istituire nel quadro dell’operazione Inherent Resolve una task force che agisca di comune accordo con il governo iracheno per diversi anni per creare un rapporto di cooperazione per la sicurezza a lungo termine. Tra i numerosi vantaggi ci sarebbe la forte internazionalizzazione di questo sforzo (al momento sono già impegnati NATO, nazioni del G20 e alleati locali) apportando qualità uniche come per esempio le capacità addestrative dei Carabinieri italiani.  Tale collaborazione sarà poi uno strumento essenziale per la raccolta e la diffusione delle informazioni per le operazioni di anti-terrorismo. Tale approccio mira soprattutto a sviluppare una strategia di contro-insorgenza, assolutamente necessaria per ristabilire il controllo del governo iracheno nelle aree riconquistate.

Dal punto di vista teorico e operativo tale analisi è perfettamente condivisibile, il problema però è che parte dal presupposto che l’Iraq sia uno stato sovrano in grado di governare, ma la realtà appare ben diversa. Qui tocchiamo il secondo punto che avevamo anticipato, ovvero la questione politica. Baghdad non controlla il suo territorio e non solo per colpa di ISIS, ma anche per via della questione relativa al Kurdistan che ormai dagli anni ’90 gode di una sostanziale, anche se mai riconosciuta ufficialmente, indipendenza. La comunità internazionale riconosce in buona sostanza tale indipendenza come testimoniato dal coinvolgimento di truppe NATO (italiane e tedesche tra le più attive) in programmi di addestramento delle milizie curde, i Peshmerga, che poi vengono utilizzate contro ISIS insieme all’esercito regolare iracheno, ma che non dipendono da quest’ultimo risultando quindi una forza armata fuori dal controllo governativo. Inutile poi ribadire come la questione curda (che coinvolge non solo l’Iraq ma anche l’Iran, la Turchia e la Siria) sia uno dei nodi più spinosi dell’area. La Turchia, che non accetta la possibilità di un Kurdistan indipendente (ed è per questo che ha truppe dislocate nei pressi di Mosul), ha lanciato attacchi sia con aviazione sia con artiglieria contro postazioni curde in Iraq e ormai da settimane opera in Sira e ha recentemente preso parte all’offensiva su Mosul in modo del tutto autonomo rispetto alla coalizione e a Baghdad. Inoltre, l’eventuale sconfitta di ISIS non risolverebbe il problema della divisione settaria in Iraq testimoniata dalle milizie sciite e dei problemi che pongono.

Un altro elemento da prendere in considerazione per valutare a pieno l’operazione di Mosul riguarda le preoccupazioni russe. Infatti, il Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate russe, Valery Gerasimov, si è dimostrato preoccupato riguardo la possibile fuga dei membri di ISIS da Mosul verso la Siria dal momento che il piano americano lascia aperto proprio un corridoio di fuga a ovest verso Tal Afar e quindi il confine siriano (guarda caso proprio la falla che le milizie sciite, evidentemente in contatto con Teheran e quindi inquadrate in un piano strategico e regionale più ampio, stanno cercando di chudere). Le preoccupazioni russe sono giustificate non solo perché così il fronte siriano si infiammerebbe ulteriormente, ma anche perché si permetterebbe a ISIS di scappare e di riorganizzarsi altrove. Il rischio di fuga, inoltre, non deve essere solo letto in ottica russa o siriana. Esso rappresenta un rischio ben più concreto per l’EU: Julian King, Commissario dell’Unione Europea per la Sicurezza, ha giustamente dichiarato di temere piccoli nuclei di o singoli foreing fighters che, dopo aver abbandonato il fronte, tornano nei rispettivi Paesi europei per compiere nuovi attacchi.

In conclusione l’operazione su Mosul non è che solo un aspetto di un conflitto ben più ampio (prima di tutto geopolitico e poi militare), che mette a rischio equilibri e alleanze storiche e che, come da altri evidenziato, rischia di aprire la via a conflitti ancora più violenti e diffusi come un moderno vaso di Pandora. Potrebbe essere l’inizio di una nuova fase di una lunga guerra per il Medio Oriente che disegnerà nuovi confini e nuove entità politiche nell’intera area.