E così siamo già vecchi. Improvvisamente e irrimediabilmente demodé. Noi, i bushiani, che salutammo l'elezione di George W., nel novembre 2000, con vaga indifferenza postmoderna; noi, generazione dell'11 settembre, improvvisamente in guerra, psicologica, con le nostre ansie. Noi che dovemmo repentinamente responsabilizzarci, informarci, capire. E sullo scaffale di noi bushiani comparirono i saggi e le analisi di neoconservatori e neoliberali di quel concitato biennio 2002/2003.

"Of Paradise and Power", di Robert Kagan, 2003, innanzitutto, quel libriccino sintetico e pungente che fu il manifesto della guerra in Iraq e dell'unilateralismo americano; ma anche Paul Berman, Norman Podhoretz, Bill Kristol. Nomi che tornavano alla memoria, per i più anziani e avveduti, dai primi anni Ottanta, quando Reagan pensava alle guerre stellari; nomi nuovi, sconosciuti, necessario aggiornamento intellettuale, per i più giovani, come me, che avevano fatto l'infanzia nel torpore della presidenza Clinton. 

Siamo già vecchi, noi bushiani, più o meno sostenitori di George W., che lo ammirassimo (pochi) o lo odiassimo visceralmente (molti); noi che avevamo imparato a leggere gli Stati Uniti secondo le mappe disegnate da Karl Rove, che sapevamo che i repubblicani erano l'America e l'America era innanzitutto repubblicana: e che a Boston e a Philadelphia e a Seattle viveva una strana razza di uomini di mezzo, non proprio europei, non esattamente americani nel modo in cui lo erano gli abitanti dell'Oklahoma e dello Utah. Noi che eravamo sicuri che le periferie urbane erano anelli di classe media di opinione conservatrice, intorno ai centri città dove i super-ricchi e i super-poveri votavano democratico. Noi che ci siamo sentiti aggiornati e di tendenza perché i nostri genitori ancora avevano in bocca quelle espressioni stantìe, novecentesche, dei decenni passati: "mondo libero", "impero del male", "crollo del muro", "guerra del golfo", "medicare e medicaid", mentre noi invece guardavamo Fox News, parlavamo di red states, guerra preventiva, esportazione della democrazia, armi di distruzione di massa, bombe intelligenti. Come suona tutto già vecchissimo, ora! Che razza di modernariato muffito e ridicolo! In poche ore, la vittoria netta (anche se non totale) di Barack Obama ha dato il colpo di grazia a questo nostro universo bushiano che già aveva cominciato a scricchiolare un paio d'anni fa. E siamo subito vecchi. 

Ci sarà un vocabolario nuovo, nuove mappe sociali e persino migratorie (nella fucina del deserto del Nevada stanno accadendo un bel po' di cose...), un nuovo mondo in cui cominciare ad orientarsi, e lo faremo, spero, con rapidità. Alle tre e mezzo del mattino, stremato dal conteggio degli Stati, mi sono addormentato davanti alla tv e al computer ancora accesi, mentre cominciava lo spoglio nel West. Alle cinque e mezza mi sveglia dolcemente una donna, una corpulenta afroamericana che sulla lunga passerella quasi parigina montata nel Grant Park di Chicago, sede del quartier generale di Obama, canta l'inno americano nel silenzio sacrale di migliaia, milioni di sostenitori. Giro lo sguardo verso il pc: "OBAMA" titola il New York Times. 
Ok, ci siamo. Una piccola era si è chiusa, una piccola era si apre. Che cosa emergerà dalle nebbie della nuova presidenza Obama è ancora presto per dirlo.