Il valore legale del titolo di studio ha, nel sistema napoleonico, taluni effetti e principalmente quello di esclusiva. Solo i diplomati in medicina e veterinaria sono medici o veterinari; solo i diplomati in otolaringoiatria hanno diritto di farsi dentisti; solo i diplomati di ingegneria di costruire ponti e case e via dicendo. Privilegio gravissimo; perché salvo due o tre casi interessanti la salute e la incolumità pubblica, non si vede perché, se così piace al cliente, il ragioniere non possa fare il mestiere del dottor commercialista, il geometra quello dell'agronomo ed il contadino attento e capace quello del diplomato in viticultura ed enologia.

Il peggio è che l'esclusiva partorisce la legittima aspettativa. Il giovane diplomato al quale è stato dichiarato che, in virtù di legge, egli soltanto ed i suoi pari hanno diritto ad esercitare la professione libera dell'avvocato o procuratore od a partecipare ai concorsi banditi da questo o da quel ministero, ad essere scelti periti in determinate controversie giudiziarie, a ricevere incarichi temporanei di supplenze scolastiche, trasforma volentieri il diritto suo teorico di esclusiva in legittima aspettativa; ed aspettando, talvolta invano, finisce per entrare nella cerchia di coloro che sono definiti « disoccupati intellettuali ». Il giovane, al quale i bolli e le firme di personaggi autorevoli e forniti di autorità legale hanno fatto sperare di potere esercitare professioni o coprire pubblici impieghi, diventa moralmente disoccupato se non consegue quel successo professionale o non riesce ad entrare in quell'ufficio che dal possesso del diploma si riprometteva di conseguire.

Poiché nulla dice che impieghi ed avviamenti professionali debbono essere ogni anno vacanti in numero uguale a quello degli aspiranti licenziati o diplomati, nasce la delusione. In verità il concetto medesimo della disoccupazione « intellettuale » è concetto assurdo, ove sia considerato distintamente da quello della disoccupazione in genere; la quale può, di tempo in tempo, variabilmente colpire molte o poche o parecchie branche dell'attività umana. La dottrina ha inventato parole nuove per indicare i diversi generi di disoccupazione; e, fra l'altre, quella di « strutturale » per indicare una disoccupazione che parrebbe più duratura di altre e dipenderebbe da non so quali vizi detti di struttura della organizzazione economica della società odierna. Qualunque siano questi vizi, parmi certo che il vizio situato alla radice della disoccupazione degli intellettuali in Italia sia la aspettativa dell'impiego pubblico o della professione remunerata privata fatta legittima dall'istituto del valore legale dei diplomi rilasciati da pubbliche autorità.

Se il diploma non fosse stato fornito degli amminicoli esteriori, in cui soltanto sta la sostanza del valore legale, forse non sarebbe nato il sentimento morale della disoccupazione; forse il diplomato non avrebbe avuto la sensazione di essere divenuto un minorato solo perché frattanto avesse seguitato ad attendere alle cose della terra o della bottega o del mestiere di suo padre o dei suoi.

Forse non avrebbe pensato di decadere se, in attesa, avesse fatto il manovale ad il meccanico. Il diploma l'avrebbe tirato fuori il giorno in cui taluno, vedendolo lavorare, si fosse interessato a lui ed ai suoi precedenti; e quel giorno il diploma avrebbe avuto un valore ben diverso e più alto di quello legale, fatto valere attraverso le solite lettere di raccomandazione di amici, parenti, personaggi autorevoli, deputati, senatori, ministri; lettere produttrici di altre lettere, di tempo sprecato e di lentezza amministrativa.

Forse; perché quando in un paese da un secolo e mezzo è inoculato il veleno del « valore legale » è vano sperare che, se anche quel valore fosse negato, vengano meno, non aiutando il costume, i suoi effetti. Che sono di irrigidimento del meccanismo sociale, di formazione di un regime corporativo di caste l'una dell'altra invidiosa, ciascuna intenta ad impedire all'altra di lavorare diversamente da quel che è scritto nelle leggi e nei regolamenti; e tutte intente a cercare occupazione, salari, stipendi là dove non si possono ottenere e cioè nei vincoli posti alla libertà di agire degli uomini.

Il mito del « valore legale » del diploma scolastico è davvero insostituibile? Un qualunque mito è accettato se e finché nessun altro mito è reputato per consenso generale più vantaggioso. Il giorno in cui si riconobbe che il metodo del rompere la testa agli avversari politici era caduto in discredito - ma era durato a lungo, per secoli e per millenni - e si accettò la tesi del contare le teste invece di romperle; l'accettazione non si basò su un ragionamento. Si sarebbe dovuto supporre, per giustificare la razionalità del sistema, che tutte le teste fossero ugualmente atte alla scelta politica; laddove è nota che talune teste sono pensanti e le altre meramente ricettive del pensamento altrui; che le une sono fornite dell'attitudine a pensare, riflettere e giudicare, le altre sono del tutto impulsive; che alcune teste sono preparate e le altre del tutto digiune di qualsiasi voglia e capacità di preparazione alla scelta politica. Ma subito si dovette riflettere che la scelta fra certi tipi di teste e certe altre avrebbe dovuto essere fatta da giudici non solo sapienti ma imparziali ed incorruttibili; sicché, per la difficoltà di valutare le teste, e per il pericolo di ritorno al vecchio sistema di romperle per affidare la scelta politica alle più dure, si preferì, come al minor male, ricorrere al sistema di contarle. Che non è razionale ed è un mito, destinato a durare sinché non se ne inventi uno migliore. Da quel che pare durerà a lungo, anche perché ha operato tollerabilmente bene in tutti i paesi ed i tempi nei quali si è riusciti, con l'istruzione, l'educazione, l'esperienza e la discussione, a ridurre al minimo il rischio che i non pensanti piglino il sopravvento sui pensanti.

Il mito del valore legale dei diplomi statali non è, dicevasi, fortunatamente siffatto da dover essere accettato per mancanza di concorrenti. Basta fare appello alla verità, la quale dice che la fonte dell'idoneità scientifica, tecnica, teorica o pratica, umanistica, professionale non è il sovrano o il popolo o il rettore o il preside o una qualsiasi specie di autorità pubblica; non è la pergamena ufficiale dichiarativa del possesso del diploma. Ogni uomo ha diritto di insegnare e di affermare che il tale o tal altro suo scolaro ha profittato del suo insegnamento. Giudice della verità della dichiarazione è colui il quale intende giovarsi dei servizi di un altro uomo, sia questi fornito o non di dichiarazioni più o meno autorevoli di idoneità. Le persone o gli istituti i quali, rilasciando diplomi, fanno dichiarazioni in merito alla dottrina teorica od alla perizia pratica altrui godono di variabilissime reputazioni, hanno autorevolezze disformi l'uno dall'altro. Si va da chi ha aperto una scuola e si è acquistato reputazione di capace o valoroso insegnante in questo o quel ramo dello scibile; ed un tempo, innanzi al 1860, fiorivano, particolarmente in Napoli, codeste scuole private ad opera di uomini, che furono poi segnalati nelle arti, nelle lettere e nelle scienze. Che cosa altro erano le «botteghe» di pittori e scultori riconosciuti poi sommi, se non scuole private? V'era bisogno di un bollo statale per accreditare i giovani usciti dalla bottega di Giotto o di Michelangelo?

Accadde si radunassero taluni venuti in fama di dotti e gli scolari accorressero ad apprendere dalle « letture » di essi i rudimenti del diritto o della medicina o della filosofia. Si insegnò e si apprese innanzi che, attratti dalla fama acquistata da lettori e scolari, intervenissero imperatori e papi e re a dichiarare l'esistenza di un corpo, detto Università degli studi, ed a conferire al corpo il diritto di rilasciar diplomi di baccelliere, di maestro o di dottore. Nei conventi degli ordini religiosi convennero uomini dediti alla meditazione ed insegnarono ai giovani chiamati da intima vocazione ad entrare nell'ordine; e i collegi di Oxford o di Cambridge risalgono spesso a questa origine ed i membri si dicono fellows o frati ed hanno a capo unwarden o padre guardiano. Chi diede loro la facoltà di insegnare e giudicare? Il sovrano poi sanzionò il fatto già accaduto, la fama già riconosciuta; ma la fonte del diritto di insegnare e dichiarare non era il diploma imperiale o la bolla papale; era invece il riconoscimento pubblico spontaneo di un corpo di facoltà nato dal fatto, e affermato dalla gelosa tutela del buon nome del collegio insegnante. Il riconoscimento viene meno ed i diplomi perdono valore quando lo spirito di abnegazione dei monaci insegnanti si affievolisce; quando il crescere del reddito dei patrimoni dei corpi insegnanti rende appetibili le cattedre per motivi diversi da quelli scientifici e le cariche si danno a prebendari favoriti o simoniaci. Altre scuole, altri corpi, altri collegi sorgono contro i corpi ribassati o decadenti o corrotti.

Ancor oggi, questo è il tipo dominante nei paesi anglosassoni. Non ordine, non gerarchia, non uniformità, non regolamentazione, non valore legale dichiarato dallo stato; ma disordine, varietà, mutabilità, alegalità dei diplomi variamente stilati che ogni sorta di scuole, collegi, università rilascia, per l'autorità che formalmente deriva bensì, e non sempre, da un diploma regio, da una carta di incorporazione; ma diplomi e carte non sono nulla di più e forse parecchio di meno dei decreti di riconoscimento di corpi morali, di associazioni filantropiche, di enti più o meno economici, di personalità giuridiche con contenuto variabile, i quali sono firmati ogni anno in Italia da ministri e da presidenti di repubblica e non hanno di fatto alcun ulteriore, come era la terminologia d'un tempo, tratto di conseguenza.

Una diversità tipica, sebbene non necessaria, vien fuori dal confronto delle parole diverse usate per fatti uguali nel nostro paese e in quelli anglosassoni; ed è la minor frequenza, qui, del titolo dottorale. La singolarità nasce dalla mania del titolo cresciuta oltremisura da noi; sicché ciascuno si riterrebbe disonorato se, dopo aver frequentato una scuola universitaria, non fosse almeno proclamato «dottore» in qualche cosa, e si videro uomini appartenenti a professioni illustri agitarsi per « conquistare » il diritto di aggiungere all'antico appellativo di ingegnere, che veramente li distingue e li illustra, l'altro di dottore, atto soltanto a creare confusione; e pure si videro i ragionieri, venuti con quell'insegna in giusta reputazione, non aver requie sinché a coloro che avevano proseguito negli studi non fosse concesso l'uso del titolo di dottore commercialista, quasi che la nuova denominazione non fosse meno propria di quella antica. La generalizzazione del titolo dottorale, altra conseguenza del mito del valore legale, reca non onore, ma discredito. Non forse nell'uso comune soltanto i medici son detti dottori? È credibile che vivano in un paese tanti uomini dotti quanti hanno diritto di chiamarsi, a decine o a centinaia di migliaia, dottori? Fu caratteristico, nel tempo di vacanza, in Italia, dei titoli cavallereschi, tra il venir meno degli insigniti della Corona d'Italia e il non ancor nato ordine al merito della Repubblica, il moltiplicarsi dei « dottori »  nei ministeri romani. Non potendo più rivolgere la parola ai funzionari come a cavalieri e commendatori, tutti, nell'uso degli uscieri e dei postulanti, divennero « dottori »; facendo quasi scadere il valore dell'appellativo al grado di quello di « eccellenza », usitato dai lustrascarpe e dai vetturini napoletani verso tutti i loro clienti.