1. Ogni tanto spunta un fungo nel bosco. E ogni tanto spunta un nuovo squilibrio. Pare, a leggere La Stampa, che la sanità pubblica proprio non ce la faccia più, e che per rimediare alla questione sul tappeto non ci siano modelli innovativi di organizzazione del servizio, ma - tanto per cambiare - modelli integrativi di finanziamento, cioè metodi per mettere ancora le mani nelle tasche sempre dello stesso Pantalone.

Lasciamo perdere per un attimo i possibili miglioramenti che si potrebbero ottenere se, per dirne una, si facessero gli esami che servono e non tutti quelli che si fanno. Sarei curioso di vedere, per esempio, una statistica della percentuali di indagini diagnostiche che escono con un esito negativo. Ma lasciamo perdere. E lasciamo perdere pure la questione che,  essendo aziende, le ASL hanno ambiti ottimali di territorio e di specializzazione che sono stati disattesi per decenni, salvo sentire adesso le esternazioni di assessori che sostengono esattamente questo. In ritardo.

2. Invece imposterei la questione su un terreno che mi è più familiare. L'economia e la statistica.

Primo: per spesa sanitaria sul Pil l'Italia è solo diciottesima nell'OCSE e una volta tanto la classifica non ci disonora, quindi, prima di buttare via il bambino con l'acqua sporca, ci penserei su. Pur essendoci margini di miglioramento, il sistema è comparativamente accettabile. Se accettiamo la logica comparativa delle classifiche sulla competitività o sul “doing business”, avrà un qualche valore anche la classifica della spesa sanitaria, no?

Secondo: bella scoperta che la tendenza della spesa sanitaria è a crescere! Sono almeno vent’anni che i demografi fanno i conti della popolazione futura. L'Italia è affetta da denatalità e anzianizzazione. La seconda fa aumentare la spesa sanitaria e quella previdenziale insieme, ossia il welfare non collegato al lavoro. Quindi il fatto non è sorprendente.

Terzo: la sanità integrativa è una cattiva soluzione all'aumento della spesa sanitaria almeno quanto la previdenza integrativa è una cattiva soluzione alla crescita della spesa pensionistica. Infatti non risolve la causa (ossia il peggioramento del quoziente di dipendenza della popolazione anziana dai giovani e dagli attivi) né la compensa (come farebbero un aumento degli attivi e/o della produttività degli attivi e/o del Pil). Quel che fa è semplicemente prelevare prima dai redditi e dalle buste paga le tasse in più per pagare le spese sanitarie che aumenteranno. Insomma, è una tassazione anticipata e basta.

Quarto: l'esperienza americana non ha proprio insegnato nulla. Noi evidentemente dobbiamo battere la testa per conto nostro. Gli americani sono famosi per pagare previdenze, mutue e assicurazioni fondamentali e integrative per qualunque cosa. Questo, non solo non ha fermato la spesa sanitaria (che vale il 17% del Pil americano, contro una salute degli americani pari a quella italiana che spende la metà), ma ha incastrato i bilanci delle famiglie, con il risultato che quando i redditi diminuiscono perché si perde il lavoro o lo si cambia in peggio (si chiama flessibilità e, obtorto collo, la stiamo importando anche da noi) normalmente la famiglia va in bancarotta sulle rate. Lo dice anche il mio amico Giorgio Arfaras, che cito perché me l'ha fatto vedere lui.

Non è con un contributo in più che si migliorano i bilanci della sanità o si soddisfano i bisogni dei  futuri anziani. Le casse integrative funzionano meglio per i loro amministratori, dirigenti e fornitori che per i soci e non frenano l'aumento della spesa sanitaria. Anzi, l'evidenza empirica dice che l'aumentano. Negli Usa dove sono diffuse è così. Le casse non aumentano il conto in banca delle persone, ma lo riducono. Non aumentano la libertà di scegliere, la riducono. Aumentano i rischi delle persone di non potere scegliere, riducono la possibilità di spendere e investire in se stessi negli anni di attività. Riducono il tasso di risparmio e generano investimenti in immobili e obbligazioni e cose del genere, invece che in attività produttive, quindi smorzano insieme la domanda aggregata,  l'investimento produttivo e il Pil potenziale. Rallentano l'economia, che se crescesse risolverebbe i problemi di finanziamento della salute.

Quinto: per finanziare mutue integrative partendo dai salari, bisogna che ci sia posto. Ora, l'Italia è al top delle classifiche per pressione fiscale sul lavoro e per cuneo fiscale (differenza tra lordo e netto in busta), come si vede dalle evidenze qui linkate.

A questo si può tranquillamente aggiungere che l'ISTAT ha appena calcolato che da 5 anni il potere di acquisto delle famiglie scende e che non solo i consumi, ma anche i risparmi, sono sotto pressione. Come si fa a finanziare la sanità integrativa? Diciamo agli italiani di cancellare la gita di pasquetta e di sostituire un cartonato al presepe di Natale? Basterà?

Sesto: e poi mi fermo, la sola misura che può alleviare nel medio periodo la tendenza all'espansione della spesa per il welfare sanitario e previdenziale è - diversamente che spalmarla in tanti modi - migliorare a tendere il quoziente di dipendenza delle generazioni anziane dai giovani. Se sull'anzianizzazione non si può fare niente, sulla denatalità si può incidere. Per esempio si potrebbero far pagare le tasse dividendo il reddito delle famiglie per le teste dei componenti, alla francese. Scommettiamo che con un contributo in meno e una tassazione più generosa con le famiglie comprare pannolini o pagare l'asilo diventerebbe più facile e nascerebbero più figli? In Francia è già così.

3. Noi invece preferiamo un contributo in più a un bambino in più. Pensiamo alle fette della torta più che alla torta: nel lungo periodo è un comportamento perdente. E i ministri tecnici dovrebbero saperlo.