Donald Trump non è mai stancato di vantare la sua capacità di “deal maker” dalla collaudata, a volte brutale, tecnica negoziale. Oggi, una cosa è certa, il Presidente Trump è totalmente incapace di trovare soluzioni negoziate con l’opposizione democratica e con la stessa leadership del partito repubblicano.

 

Il capo della minoranza democratica ha bollato il capo dell’esecutivo con una definizione che rimarrà nel lessico politico americano: “è come negoziare con la gelatina (jell-o)”. Dopo tre giorni di tira e molla, la leadership democratica ha raggiunto un do ut des con il leader repubblicano del senato McConnell, votando a favore di una misura di spesa stopgap, ossia provvisoria, che durerà fino all’8 febbraio. In cambio,  McConnell ha promesso di aprire il dibattito su una nuova legge di immigrazione. Un elemento centrale dell’intesa è che in mancanza di un “deal” sull’immigrazione, il Senato si dedicherà ad una soluzione del problema dei “dreamers”.

Resta il fatto che lo “shutdown” è stato il risultato dell’indecisione e dell’incostanza del Presidente nelle scelte concernenti l’immigrazione e contemporaneamente dell’intransigenza dei democratici circa la vexata quaestio dei “dreamers”, quei settecentomila illegali in giovane età entrati di straforo negli Stati Uniti con i loro genitori. La maggioranza degli americani non ha dubbi: lo “shutdown” è stato causato prevalentemente dal Presidente, anche se i democratici hanno dato una mano. Ogni qualvolta la trattativa per un compromesso – una misura che regolasse la salvaguardia federale DACA (Deferred Action for Childhood Arrivals) voluta dal Presidente Obama ma cancellata da Trump con il risultato di destinare i giovani illegali alla deportazione – sembrava prossima ad un’intesa tra democratici, repubblicani e la Casa Bianca, il Presidente Trump faceva marcia indietro trincerandosi su una linea restrittiva in fatto di immigrazione. La DACA era una.

Qualcuno ha ipotizzato che, in fondo, Trump si augurasse di poter giungere ad un compromesso, di fatto oggetto di serrate discussioni con il Senatore Schumer e altri esponenti della leadership democratica. Al momento decisivo, sempre secondo questa versione, sarebbe però intervenuto il corpo dei consiglieri presidenziali, notoriamente avverso a concessioni immigratorie. Tra costoro figurano lo stesso capo dello staff presidenziale, il generale John Kelly, e il consulente di rango più elevato, Stephen Miller.

Vero è però che Trump, esercitando la sua autorità, avrebbe potuto accettare l’impegnativa richiesta dai democratici ed evitare che questi, in mancanza di uno straccio di accordo sulla DACA, bloccassero al Senato l’approvazione di una misura temporanea di bilancio. La leadership democratica aveva persino lasciato trapelare una possibile concessione, il parziale finanziamento del muro che da tempo rappresenta la pubblica ossessione del Presidente repubblicano.

Lo “shutdown” è stato quindi inevitabile e 2.300.000 dipendenti federali ne hanno pagato le conseguenze, per non parlare delle migliaia di turisti che hanno trovato chiusi parchi e monumenti nazionali. L’America si è trovata insomma ad osservare impotente lo spettacolo di un Presidente in preda all’ira, a frustrazioni e tentazioni bellicose, un maelstrom di esternazioni emotive che certamente non si addicono ad un leader di statura mondiale. In parte, la rabbia di Donald è stata causata anche al fatto che lo “shutdown” gli ha rovinato le celebrazioni del primo anno di presidenza, programmate nella sua residenza della Florida, con la partecipazione di ospiti disposti a pagare 100.000 dollari per un paio di inviti. La realtà politica dello scadere del primo anno di presidenza Trump è dunque questa: pur occupando la Casa Bianca e con un Congresso (Senato e Camera) nelle mani della maggioranza repubblicana, il Presidente repubblicano non ha saputo gestire una situazione complessa ma negoziabile costringendo il “suo” Congresso a dichiarare la sospensione delle spese di bilancio federale. Alla fine sono stati i senatori a trovare una soluzione tappabuchi. Tanto basta a giudicare le doti di “deal maker” di Donald Trump. La conclusione non può che essere questa, che Donald Trump non ha la capacità né l’esperienza necessarie per sottoscrivere compromessi politici.  

Nell’anniversario dell’ascesa di Trump al vertice del potere della nazione più potente il quesito al quale si cerca di dare risposta è fino a che punto, e per quanto tempo Donald Trump influenzerà le politiche presidenziali, avendo innescato una fondamentale trasformazione del processo che seleziona e valuta le prospettive di aspiranti alla presidenza. Ad un anno dall’avvio della sua presidenza, Trump dimostra la sua incompetenza. Vale la pena di ricordare che prima di presentarsi candidato all’investitura repubblicana, Trump non aveva mai ricoperto un incarico elettivo, non aveva prestato servizio nelle forze armate e non aveva stabilito alcun rapporto di reciproca fiducia e di collaborazione con il partito repubblicano. Egli era un “outsider” o, per usare un termine americano più colorito, un “outlier”. Non solo, ma i sondaggi demoscopici rivelavano che solo quattro americani su dieci avessero un’impressione favorevole del candidato Trump. C’è voluto del tempo per capire la vera essenza del fenomeno Trump.    

A segnalare il fatto che la differenza fondamentale tra Trump e i suoi predecessori è proprio la competenza sono due studiosi di politica estera, Andrew Bacevich e John Mearsheimer. In particolare, ricordano che Trump fu eletto in buona parte perché nel corso della campagna elettorale attaccò a fondo la condotta di politica estera di Obama, definendola bancarottiera. Secondo i due esperti, la politica estera americana non è cambiata molto ed in realtà Trump non fa che seguire quello che Obama chiamava “Washington playbook”, ossia il copione. Secondo questa tesi, mentre la politica estera americana non subisce grandi mutamenti, nonostante la retorica nazionalista e iconoclastica del Presidente, quel che viene a mancare è proprio la competenza. In particolare, Mearsheimer avverte che l’incompetenza di Trump riflette “la sua incapacità di concentrarsi su questioni sostanziali e di discuterle con un linguaggio razionale e legale”. La conseguenza di questa situazione – avverte lo studioso dell’Università di Chicago – è che i capi di governo e le personalità dedite alla politica estera in altri Paesi hanno capito che per quanto la retorica di Trump metta paura, le direttive politiche non sono poi così diverse da quelle seguite da Obama. Il Presidente Trump si è circondato di consiglieri che sono per la maggior parte militari, ma che in termini pratici rappresentano lo status quo. Lo status quo aveva finito con l’imporsi a suo tempo anche sull’operato dell’amministrazione Obama. Di nuovo, con Trump, c’è la retorica del smargiasso; ma la retorica non è politica e la politica resta in fondo quella dei suoi predecessori.

È passato un anno dal suo insediamento, ma Trump non ha dato corso alle sue perentorie sfide internazionali. Non è scoppiata la guerra commerciale con la Cina che Trump aveva minacciato nei comizi elettorali. La NATO funziona ancora e gli alleati hanno aumentato, ma non molto, il loro contributo alla difesa comune. Trump ha abbandonato varie istituzioni ed accordi, ma non si può dire che oggi prevalga un isolazionismo dell’America. La lotta contro l’ISIS prosegue con crescenti dislocamenti di forze americane nel mondo, con una vigorosa escalation in Africa. Nell’Afghanistan operano più truppe americane che nel recente passato. I danni maggiori li ha sofferti la soft power degli Stati Uniti.

Un tentativo di prevedere quel che il Presidente Trump potrà fare nei tre anni restanti della sua amministrazione non può prescindere da questa osservazione, che per quanto il suo deficit di esperienza possa risultare accettabile ad un settore nazionalista e nativista dell’elettorato, è scontato che gli impedirà in misura crescente di conseguire i risultati che Trump può prefiggersi. Trump si è rivelato incapace di gestire negoziati globali non tanto per la sua incompetenza generale e lo scarso impegno intellettuale, ma per una radicata ingenuità circa la dinamica delle trattative bilaterali. La paralisi creata dallo “shutdown” ne è l’ultima prova anche se il suo silenzio nella fase finale del “deal” al congresso viene interpretato dai portavoce repubblicani come la chiave del successo.  Un successo, vale la pena di rilevare, che è tutto da rivedere a febbraio perché sono parecchi i senatori democratici che hanno dichiarato di non fidarsi delle assicurazioni del Senatore McConnell. Sedici di loro hanno votato infatti contro il “deal”. Per dirla con Elizabeth Saunders di Foreign Affairs, nel dibattito se il primo anno di Trump sia stato migliore o peggiore di quel che si aspettava, il vero timore è che il peggio debba ancora venire.