È un luogo comune occidentale considerare l’Africa la terra più ricca di materie prime al mondo. Ed è corretto. Il continente può essere considerato il primo fornitore mondiale di oro, platino, diamanti, uranio, manganese, cromo, nichel, bauxite, cobalto e coltan. All’elenco vanno aggiunte le importanti risorse energetiche: carbone, gas e petrolio. Infine, all’opulenza dei beni del sottosuolo corrisponde altrettanta abbondanza in superficie. Si pensi all’acqua, alle foreste o, ancora più banalmente, allo spazio a disposizione.
Il terzo continente delle terre emerse, dopo Asia e America, ha una densità di popolazione di circa 33 abitanti per chilometro quadrato. Un terzo di quella asiatica (92 ab/kmq), poco meno della metà di quella europea (80 ab/kmq). È vero le immense aree desertiche del Sahara e della Namibia, oppure tutta la fascia forestale dell’equatore sono quasi off limit per l’uomo. Tuttavia, con 7 e passa miliardi di abitanti sulla terra e un loro tasso di crescita costante (1,15% annuo), è lecito chiedersi se non sia il caso di valutare soluzioni abitative anche per le macroaree africane meno ospitali.
C’è però anche un altro luogo comune, sulla cui correttezza si può riflettere. E cioè che l’Africa sia ancora soggetta alle angherie dell’Occidente, al quale si sono affiancati gli appetiti cinesi e indiani. Oggi come nell’Ottocento, il continente sarebbe una terra di conquista e colonizzazione, dove al posto di “Hic sunt leones” – come segnalavano i Romani sulle loro carte geografiche – noi pare che abbiamo scritto “Paese del bengodi”. Per la cultura di massa occidentale, l’Africa resta una vacca da latte munta dallo stesso Occidente. Il nostro è un senso di colpa post-coloniale. Un atteggiamento pietistico nei confronti di una Mamma Africa, verso la quale saremmo debitori di un dovere morale, cioè averle impedito di progredire. In Cina non si fanno questi scrupoli.
È giusto questo ragionamento? O meglio ha senso che noi occidentali, a 45 anni dalla fine del processo di decolonizzazione, si debba ancora indossare il cilicio e percorrere i fangosi sentieri africani recitando il mea culpa? Molto probabilmente sì. Tuttavia, sarebbe giusto che anche un certo establishment africano si assumesse le proprie responsabilità. Non si sta parlando dei tanti dittatori sanguinari e satrapi corrotti. Dei loro crimini nessuno dubita. No, il riferimento è a una leadership africana che, grazie a un sistema scolastico introdotto dagli europei e dopo aver frequentato i più autorevoli centri di potere internazionali, avrebbe avuto tutte le possibilità per condurre una parte o l’intero continente verso una concreta emancipazione.
Da qualche mese è in libreria l’ultima fatica editoriale di Kofi Annan. “Intervention: a life in war and peace”. Il Premio Nobel per la pace 2001 ricostruisce per l’ennesima volta le sue esperienze presso la diplomazia Onu. Il suo è un lavoro apologetico e autoreferenziale, che non passa immune alle critiche dei giornali. È infatti difficile dimenticare la debolezza dimostrata da Annan per quanto riguarda i massacri della guerra in Iugoslavia, l’inefficacia del suo intervento diplomatico per evitare il conflitto in Iraq e infine oggi l’ignavia di fronte a quello che sta accadendo in Siria, dove Annan sarebbe inviato speciale del Palazzo di vetro e, insieme, della Lega Araba.
Kofi Annan, nato a Kumasi in Ghana nel 1938, è l’esempio più indicato per capire come la classe dirigente africana non abbia assorbito nulla dalla colonizzazione e tanto meno sia riuscita a svincolarsene. L’ex Segretario generale dell’Onu è in tutto e per tutto occidentale. Scuola, lingua e religione sono di matrice europea. La moglie, svedese, e l’abbigliamento richiamano alla nostra cultura. Bene, con questo bagaglio professionale di altissimo livello, Kofi Annan non è stato in grado di prendere Mamma Africa sottobraccio e aiutarla a camminare. Non è il caso di ricordare le sue responsabilità per il genocidio in Ruanda nel 1994. Domanda: il fatto che l’autore di “Intervention: a life in war and peace” sia stato, e lo sia ancora, un flop in termini di diplomazia attiva non è colpa dell’Occidente, vero?
Altro membro di spicco della classe dirigente africana che merita un ridimensionamento è Ellen Johnson Sirleaf, presidente della Liberia dal 2006 e premio Nobel per la pace nel 2011. Dopo una lunga carriera nei settori dell’economia dei Paesi in via di sviluppo e nella cooperazione internazionale – soprattutto presso la Banca mondiale – la Sirleaf è stata la prima donna eletta a Capo di uno Stato africano. A Monrovia la chiamano “la lady di ferro”. Dimenticando che il nickname, in passato, è appartenuto a un’altra signora. All’inizio del mandato presidenziale, molti avevano riposto le speranze che la Sirleaf potesse invertire il destino della Liberia. Chiusa la parentesi della guerra civile e in attesa che l’ex warlord Charles Taylor venisse messo sotto processo – il suo arresto sarebbe avvenuto nello stesso 2006 – la Liberia di madam Sirleaf avrebbe potuto dettare il passo per una nuova strada di crescita e progresso africani. Del resto, già in passato, il Paese si era dimostrato all’avanguardia rispetto ai propri vicini. La sua dichiarazione di indipendenza risale al 1847, ben prima della colonizzazione europea. Il governo di Monrovia si insediò per mano di un gruppo di schiavi neri fuggiti dagli Stati Uniti e tornati nella terra dei loro padri.
Spesso però, le speranze che si ripongono in un solo leader sono troppo onerose affinché questo, da solo, possa davvero soddisfarle. Così, a sei anni da quelle elezioni, la Liberia versa in condizioni sostanzialmente drammatiche. Il 50% della popolazione è senza lavoro, mentre l’80% vive sotto la soglia di povertà. E si sta parlando di un Paese con 3,8 milioni di abitanti. La Liberia è al 87esimo posto, su 183, nella classifica internazionale sulla trasparenza politica.
La beffa vuole che, a giugno scorso, Charles Sirleaf, figlio del presidente, sia stato sospeso dalla madre dal suo incarico di vice governatore della Banca centrale, per la mancanza di collaborazione dimostrata dall’istituto nel cercare di fermare il giro di tangenti che ruota intorno all’esportazione di legname. Il settore è fondamentale per l’economia del Paese e ce ne occuperemo in uno studio a parte.
Al momento merita concentrarsi sul tema della leadership. In particolare sulla figura di Ellen Johnson Sirleaf. I numeri appena esposti, nella loro banalità, sono la prova del fallimento delle speranze erroneamente entusiastiche. Speranze sposate male con i pregiudizi inossidabili per cui se i mali africani sono stranieri, la ricetta deve pure giungere da fuori. Era naturale che la Sirleaf – sebbene educata professionalmente secondo i canoni occidentali, alla stregua di Kofi Annan – non potesse rimettere in ordine la Liberia. È vero, grazie alla sua presidenza, e alla fine delle sanzioni su legname e diamanti, l’economia ha ripreso a respirare. Monrovia ha coperto cinque miliardi di dollari di debito che la impegnavano con il mercato internazionale. Negli ultimi anni poi, l’International Monetary Fund e la World Bank si sono dichiarate ottimiste. Non basta però fare cassa per dichiararsi ricchi. Così come non basta una ex civil servant della Banca Mondiale per dire che in Liberia tutto va bene e che soprattutto la sua classe dirigente sia affidabile. La Liberia è il Paese che ha ricevuto i minori influssi negativi dall’Occidente in tutta l’Africa. Le sue condizioni di arretratezza e la guerra civile nascono da ragioni tribali. Con la Sirlieaf si è creduto che di poter risolvere le cose. Così non è stato.
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