Scioperi in Sudafrica: siamo alla resa dei conti? Già a novembre era stato previsto che le proteste dei minatori, che hanno interessato il terzo trimestre del 2012, avrebbero inciso in maniera negativa sulla crescita dell’economia nazionale. Giorni fa, le previsioni sono state confermate.
La Anglo American Platinum (Amplats), leader mondiale nell’estrazione di platino, ha ammesso di aver perso almeno 175 milioni di dollari a causa degli scioperi. Non si tratta solo di un buco nei conti di una compagnia mineraria. Le manifestazioni violente in cui spesso degenerano le proteste dei minatori sudafricani dovrebbero far da campanello d’allarme a un mercato del lavoro completamente allo sfascio.
Il 10 agosto dello scorso anno, gli operai della miniera di Marikana, di proprietà della britannica Lonmin, erano scesi in piazza accusando azienda e sindacati di controllare le assunzioni senza tenere conto delle esigenze della comunità locale. La Lonmin, in accordo con la National Union of Mineworkers (Num), avrebbe favorito l’impiego di immigrati d’oltreconfine, provenienti soprattutto da Mozambico, Malawi e Zimbabwe. Profughi, questi, spesso scampati a situazioni socio-economiche peggiori di quella sudafricana e quindi disposti a salari ridotti e condizioni di lavoro al limite dell’umanità.
Lo sciopero del 10 agosto nasceva senza l’autorizzazione né da parte dell’azienda né dai vertici del sindacato. Nel caos che era emerso, si sperava di poter risolvere la faccenda con il “metodo Bava Beccaris”. Tuttavia, 49 morti e 78 feriti costituiscono un bilancio imbarazzante. Oltreché difficile da nascondere. A sparare erano stati tutti: operai, sindacati, polizia.
Oggi però, con il senno di poi, lo sciopero di Marikana appare come un’occasione per far luce sul grande tabù del Sudafrica post-Aparthied: i danni di cui Mandela è padre. Il Paese è vittima di una disoccupazione al 25%. Il mercato del lavoro resta una specie di Far West, regolato da interessi di cooptazione tribale e metodi di sfruttamento per nulla dissimili da quelli boeri. Ai tempi il bianco comandava e i neri subivano. Oggi a prevalere è la triade governo-sindacati-aziende. Mentre gli operai di colore continuano a essere le vittime.
In Sudafrica vige un sindacalismo ideologizzato, tardo comunista, di massa – sono 3,1 milioni i lavoratori iscritti alle Unions – e che gestisce la distribuzione dei posti di lavoro prendendo accordi con le istituzioni di Johannesburg e le società straniere. Il Congress of South Africa Trade Unions (Cosatu) resta la sigla sindacale più influente del Paese. È legata per tradizione all’Africa National Congress (Anc) e al South Africa Communist Party (Sacp). Il citato Num è un satellite del Cosatu.
Fondata nel 1982, l’organizzazione dei minatori coordina il settore occupazionale più corposo del Sudafrica. Il 78% della forza lavoro è addetto alle attività minerarie. Nel suo manifesto programmatico, il Num fa esplicito riferimento a metodi di protesta “estremi”: lotta armata, mobilitazione di massa, solidarismo internazionale, operazioni eversive contro le società dei bianchi. Oggi, pur con il capitolo Apartheid chiuso e l’Anc al governo, il manifesto del Num resta quello di trent’anni fa. La sola differenza è negli accordi sottobanco. Gli operai però questi inciucio non lo vogliono accettare. Quindi che fanno? Giustificati dallo statuto del Num stesso, scendono in piazza e menano le mani. Solo che oggi a rispondere non sono più i poliziotti bianchi. Ma i sindacalisti stessi. E così il cane si morde la coda.
Altra questione è la lobbying tribale. Il comunismo e l’internazionalismo sfoggiati dall’Anc di Mandela sono ormai acqua passata. Ad agosto, il presidente Zuma – nel suo goffo tentativo di negoziare con gli scioperanti – si è presentato a Marikana come una specie di Bokassa in versione ridotta. «Il presidente è apparso a Marikana sotto un ombrello che lo proteggeva dal sole e circondato dai suoi bodyguard», si leggeva, durante i giorni della protesta, sul locale Sunday Times. A fianco dell’articolo troneggiava una foto con i minatori che ascoltavano Zuma, seduti a terra e sotto il sole. Un po’ come i servitori neri un tempo pendevano dalle labbra del padrone bianco. Oppure i guerrieri attendevano gli ordini del loro capo tribù.
In quei giorni, Zuma ha commesso un errore dietro l’altro. E non solo di immagine. Ha raggiunto Marikana quando già 34 minatori erano rimasti uccisi. Ha preferito incontrare prima le forze dell’ordine, responsabili di aver aperto il fuoco, e poi i minatori. Infine ha promesso la formazione di una commissione di inchiesta, il cui risultato ancora oggi resta da definire. «In una democrazia che si rispetti, episodi di questa gravità provocano la destituzione dei ministri e la comparizione in tribunale dei diretti responsabili», commentava la signora Lindiwe Mazibuko, parlamentare di opposizione per il Democratic Action (Da). «Il Paese è sull’orlo della guerra civile», le faceva eco Ela Gandhi, nipote del Mahatma.
L’allarme di cinque mesi fa oggi non si è ridotto. Vedi i risultati negativi pubblicati dalla Amplats. Il problema però non sta nelle risorse minerarie mal gestite. Bensì in una bomba sociale a orologeria. Oggi un lavoratore sudafricano su quattro è disoccupato. Le sue possibilità di trovare impiego sono vincolate alle prepotenze dei sindacati e a una classe dirigente nazionale che sembra totalmente alienata dai problemi del Paese. Anzi, Zuma appare rapito da eccessi di megalomania. Il culto del capo (Nelson Mandela), il fittizio successo dei grandi eventi sportivi, la corruzione incontenibile. It’s time for Africa! Era questo il tormentone di due anni fa, cantato da Shakira in occasione dei mondiali di calcio sudafricani. Però no. Sembra che non sia ancora il momento giusto per l’Africa.
Postilla finale. Dopo queste riflessioni sul Sudafrica e la Liberia, c’è chi potrebbe dire che l’Africa non è soltanto questi due Paesi e che la generalizzazione non premia. È vero l’Africa non è solo Johannesburg e Monrovia. Oltre le loro frontiere, e fatte salve poche altre eccezioni, il "continente nero" – termine politicamente scorretto e che per questo ci piace – è ancora più disastrato.
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