Prima della concitata elezione del Nuovo Presidente della Repubblica i mercati finanziari erano tranquilli – il rendimento del BTP era assestato appena sopra il 4%, alle aste i titoli offerti sono stati tutti facilmente assorbiti, e la borsa è qualche volta andata persino meglio di quella degli altri Paesi. Questo andamento “tonico” ha una logica: il sistema bancario italiano, che è parte maggiore dell'indice della borsa, è ora percepito come più solido (1), e il BTP potrebbe essere oggetto di acquisti anche degli investitori internazionali (2), (3).

Durante i giorni della concitata elezione del Presidente della Repubblica si è avuto un triplo mutamento della strategia del PD. Prima il PD ha tentato l'apertura al PDL con Franco Marini e ha visto bocciato il candidato dai propri Grandi Elettori. Poi ha cambiato candidato proponendo uno proprio, Romano Prodi - una strategia che si chiama "stand alone" nelle scuole di business-, ma anche questo è stato bocciato dai propri Grandi Elettori. Insomma, il PD si è spaccato due volte “a sinistra”. Allora perché il PD non ha votato l'altro candidato presidente, Stefano Rodotà, così da avere la maggioranza per promuovere il "rinnovamento"? Perché in questo caso il PD si sarebbe spaccato “a destra” e non più “a sinistra”. Le tre anime del PD (cattolica e moderata - sinistra tradizionale - sinistra new age) non riescono a convivere. Pierluigi Bersani ha cercato l'equilibrio fra le tre componenti e non ci è riuscito. L'unica soluzione per il PD – per evitare che alla crisi del partito si sommasse anche una crisi istituzionale - è stata allora quella di rieleggere Giorgio Napolitano, con una convergenza esplicita al centro (PdL+Lega+Lista Civica), così accettando che la sua parte radicale si unisca con il M5S.

Osserviamo ora la vicenda - precedente l'elezione del Presidente e la vicenda dell'elezione del Presidente - dal punto di vista dei mercati finanziari. Rispetto a come poteva andare a finire - una sinistra che diventa più radicale per inseguire il “grillismo”, vedi il programma iniziale in otto punti di Pierluigi Bersani, è andata bene. E' andata bene anche rispetto all'opzione "stand alone" di Romano Prodi, che avrebbe cercato di fare breccia col “grillismo”. A maggior ragione è andata bene rispetto a quel che sarebbe accaduto con il voto per Stefano Rodotà chiesto dai “grillini” per dare “il via libera” al governo Sinistra-M5S di Pierluigi Bersani.

Ai mercati finanziari interessa la combinazione di un bilancio pubblico sotto controllo - quel che è accaduto ai tempi di “salva Italia”, e di un rilancio dell'economia - quel che era il programma di “cresci Italia” (5). Una combinazione che si ha più facilmente (oppure meno difficilmente?) con un governo detto di “larghe intese”. Insomma, una riedizione del ”montismo”, questa volta allargato anche alla Lega (6). Insomma, alla fine è stato evitato “il peggio” per i mercati finanziari, ma ora si dovrà produrre “il meglio”.

Per il resto la nostra asset allocation di aprile non cambia rispetto a quella proposta a marzo, che riportiamo. 1) Le azioni statunitensi sono attraenti? La risposta alla fine dipende da un giudizio “storico-politico” e non finanziario; 2) le azioni giapponesi sono attraenti? Fintanto che non si giunge al limite dell'accumulazione del debito pubblico, esse lo sono.

Le azioni statunitensi sono tornate ai massimi livelli del 2000 e del 2007, con ciò mostrando che è tornata la “fiducia”. Le azioni statunitensi hanno toccato - dal 1928 ad oggi - il massimo circa mille volte, e dunque abbiamo avuto mille giorni di fiducia al picco. Alla fine, il mercato è sempre salito, ossia la fiducia si è – nel corso dei decenni - sempre palesata con dei livelli crescenti di prezzo. Tutto bene allora? Si e no. Intanto, se prendiamo lo Standard & Poor's cui aggiungiamo i dividendi e togliamo l'inflazione, scopriamo che esso non è ancora tornato ai massimi del 2000 e del 2007. Dunque è a un massimo solo se pensiamo che l'inflazione (ossia il potere d'acquisto) non conti.

Ma il dubbio maggiore viene osservando questo grafico, dove si ha la crescita del PIL nominale (la linea blu), la crescita dei profitti delle società quotate che compongono l'indice Standard & Poor's (la linea rossa), e l'indice Standard & Poor's (la linea verde). Si vede che fino al 2000 i profitti crescevano all'incirca come il PIL, e poi sono cresciuti molto di più dal 2003 fino al 2007, e di nuovo molto di più dal 2009 ad oggi. Ossia, fino al 2000 la distribuzione del reddito fra salari e profitti era abbastanza costante, e da allora ha preso una piega differente, premiando - ed anche molto - i secondi. Sempre lo stesso grafico mostra come la borsa sia crescita quanto i profitti fino ai primi anni Novanta, e come da allora, sia salita molto più di quanto siano saliti i profitti. Si può perciò arguire che sia aumentata la fiducia nella dinamica dei profitti, ossia l'idea che questi cresceranno talmente tanto anche nel futuro da giustificare i prezzi che li incorporano nel presente.

La risposta alla domanda se la borsa statunitense sia cara o meno dipende alla fine da un giudizio “storico-politico”. Le imprese statunitensi saranno ancora in grado di catturare una quota così elevata del reddito nazionale?

Secondo Richard Koo – capo economista di Nomura Research - il Giappone non è entrato in depressione negli anni Novanta, ma ha soltanto sperimentato una crescita nulla perché aveva capito dov’era il problema. Possiamo chiamare il problema lo «sciopero del debitore». In altri termini, nessuno in Giappone voleva del credito, qualunque fosse il tasso d’interesse praticato, perché doveva rendere il troppo debito che aveva cumulato. Nel caso giapponese erano le imprese non finanziarie a non volere il credito, e se nessuno vuole il credito l’economia non funziona. In questo caso, non sono i tassi, per quanto bassi, che possono ravvivare la richiesta di credito.

La politica monetaria dunque è spiazzata, ossia non basta mantenere bassi i tassi di interesse praticati dalla banca centrale. Resta la spesa pubblica, per salvare le cose: la s’incrementa fino ad assorbire la riduzione di quella privata. I finanziamenti che andavano al settore privato ora vanno a quello pubblico. Il fabbisogno finanziario dello Stato non spinge al rialzo i rendimenti delle obbligazioni, perché il settore privato non chiede più, fintanto che deve ridurre il proprio debito, capitali al mercato. A distanza di anni distanza di anni, Koo ribadisce questo punto di vista, sostenendo che non bisogna tentare di ridurre il deficit pubblico fino a quando non si è sicuri che l’economia torni a chiedere credito. Se si cerca di controllare prima del tempo il deficit pubblico, contando che al minor credito chiesto dal settore pubblico corrisponda un maggior credito chiesto dal settore privato, si rischia di peggiorare le cose – proprio come avvenne in Giappone nel 1997 e nel 2001. L’alternativa, ossia portare subito sotto controllo il debito pubblico per evitare che «scappi di mano», rischia di peggiorare le cose. Insomma, il bilancio pubblico va portato sotto controllo solo quando si è sicuri che è ripartita la domanda di credito del settore privato.

La scelta del Giappone di indebolire il cambio, di far finanziare dalla banca centrale la spesa pubblica in largo deficit, e di riformare i settori economici, sono, secondo Koo, una scelta saggia. Dunque va bene investire in Giappone (lunghi di borsa e corti di yen) per un periodo, ma non alla lunga, perché i vincoli dell'accumularsi di un gran debito pubblico si faranno prima o poi sentire.

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