Sul fronte della ripresa e dei debiti pubblici le cose non sono chiare. Non sappiamo se la ripresa abbia davvero le gambe per sostenersi, anche se sospettiamo che non le abbia, almeno a giudicare dall’andamento dell’occupazione. Il rischio delle politiche d’austerità è quello di frenare la già modesta ripresa. I debiti pubblici – con le politiche di austerità – smetterebbero di crescere molto, ma crescerebbero lo stesso, con ciò spingendo in alto i rendimenti delle obbligazioni a lungo termine. In Europa dovremmo avere una crescita modesta, con le obbligazioni dei paesi detti viziosi sotto pressione, e un sistema bancario oppresso dal sospetto che il futuro sarà caratterizzato da cospicui aumenti del capitale di rischio e da una modesta distribuzione di dividendi. Gli utili delle imprese potrebbero crescere poco per effetto dell’economia moscia e per le eventuali maggiori imposte, mentre i prezzi delle azioni oggi non sono – in rapporto agli utili – bassi, bensì intorno alla media storica.

Il mutamento di prospettiva

Agli inizi degli anni Trenta si pensò che una politica d’austerità e non la spesa pubblica in deficit potesse riportare la fiducia dei mercati. Nella letteratura economica quest’idea è detta «il punto di vista del Tesoro», perché è quanto il Tesoro di Sua Maestà pensava. Oggi sembra che le cose non differiscano. Si vede dal G20, che, ad aprile, sosteneva che non si dovessero toccare le politiche economiche espansive fino a ripresa avvenuta, mentre oggi, con qualche contestazione di parte statunitense, sostiene che i bilanci pubblici vanno messi subito sotto controllo.

Si può argomentare a favore di una o dell’altra tesi. Non essendo possibili in economia gli esperimenti di laboratorio – si prova la prima cura e si vede che cosa succede, poi la seconda e di nuovo si vede che cosa succede – alla fine si sceglie «al buio». Come andrà a finire non lo sappiamo, ma lo sapremo alla fine.
 
1. Oggi l’onda montante è quella dell’austerità. Ridotta all’essenziale, essa asserisce che: a) bisogna evitare che i tassi d’interesse (= i rendimenti) sul debito pubblico crescente salgano; b) essi potrebbero salire, perché un debito crescente potrebbe non essere assorbito dai mercati con dei rendimenti bassi; c) se salissero i rendimenti sul debito pubblico, salirebbero i tassi d’interesse per i privati, con nocumento per il finanziamento dei consumi e degli investimenti; d) salirebbe il costo del debito pubblico, ciò che renderebbe molto più costose le manovre di correzione. Implicito nel ragionamento è che l’economia si possa riprendere per conto proprio, ossia senza un sostegno forte della spesa pubblica in deficit.

2. Chi combatte l’idea di perseguire fin da subito l’austerità sostiene due tesi. Una legata all’esperienza del Giappone, l’altra all’esperienza di molti paesi. Secondo l’economista Richard Koo, il Giappone non è entrato in depressione negli anni Novanta, ma ha sperimentato una crescita nulla, forse perché aveva capito il problema. Possiamo chiamarlo lo «sciopero del debitore». In altri termini, nessuno in Giappone voleva del credito, qualunque fosse il tasso d’interesse praticato, perché doveva rendere il troppo debito che aveva cumulato. Nel caso giapponese erano le imprese non finanziarie a non volere il credito, e se nessuno vuole il credito l’economia non funziona. In questo caso, non sono i tassi, per quanto bassi, che possono ravvivare la richiesta di credito. La politica monetaria dunque è spiazzata. Resta la spesa pubblica, per salvare le cose: la s’incrementa fino ad assorbire la riduzione di quella privata. I finanziamenti che andavano al settore privato ora vanno a quello pubblico. Il fabbisogno finanziario dello Stato non spinge al rialzo i rendimenti delle obbligazioni, perché il settore privato non chiede più, fintanto che deve ridurre il proprio debito, capitali al mercato. Se si cerca di controllare prima del tempo il deficit pubblico, contando – o sperando – che al minor credito chiesto dal settore pubblico corrisponda automaticamente un maggior credito chiesto dal settore privato, si rischia di peggiorare le cose – proprio come avvenne in Giappone nel 1997 e nel 2001. L’idea di comprimere i deficit pubblici prima ancora di esser sicuri che la ripresa sia avviata potrebbe quindi essere una mossa nella direzione sbagliata. L'economista Paul Krugman è contrario all'austerità tornata in voga. Prende allora i casi in cui i paesi che hanno perseguito l’austerità fiscale sono tornati a crescere. E sostiene di aver trovato quanto segue: «So every one of these stories says that you can have fiscal contraction without depressing the economy IF the depressing effects are offset by huge moves into trade surplus and/or sharp declines in interest rates. Since the world as a whole can’t move into surplus, and since major economies already have very low interest rates, none of this is relevant to our current situation».


Le vicende europee

Si vocifera che le banche spagnole siano in difficoltà, ossia che riescono a finanziarsi solo con la Banca Centrale Europea. La Spagna è il paese dove maggiore è l’esposizione delle banche non spagnole. (Le banche italiane hanno un’esposizione minima in Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda.) Un eventuale test (= stress test) sul sistema bancario europeo – un test simile a quello a suo tempo condotto sulle banche statunitensi e inglesi – mostrerebbe quanto sono esposte ai crediti di modesta qualità le banche tedesche e francesi, ed è per questo che per ora è evitato anche se non escluso. In ogni modo, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna gli stress test furono seguiti da cospicui aumenti del capitale di rischio delle banche.

Alcuni sostengono che – dopo la crisi Grecia, e soprattutto se emergesse quella spagnola – la vicenda dell’euro è sostanzialmente terminata. L’uscita dall’euro però non converrebbe né ai paesi detti viziosi né a quelli detti virtuosi. I primi pagherebbero di più il loro debito, i secondi si troverebbero con dei crediti svalutati. La soluzione va in ogni caso trovata entro gli accordi monetari.

La vicenda europea può essere chiarita se la si dispone all’interno di quattro scenari: a) quello che vede tornare tutto al suo posto e pure in fretta; b) quello in cui si continua a tentare il ritorno all’ordine, ma poco si ottiene; c) quello in cui si entra in tensione e non si risolve quasi nulla, salvo evitare che le cose volgano al peggio; d) quello che prevede la rottura dell’area dell’euro. Noi pensiamo che oggi si sia nel secondo scenario, ma che si finirà nel terzo – a nostro giudizio il più realistico, anche se non ci piace. Il primo e il quarto li giudichiamo molto improbabili.

Esponiamo dettagliatamente il terzo scenario. «The demands facing southern European economies could prove too much. Greece might remain hospitalised longer then expected and face a debt rescheduling. Portugal or even Spain might follow. Social unrest could rise to intolerable levels if austerity measures imposed by the International Monetary Fund and EU are not seen to be yielding results. Jean Pisani-Ferry of Bruegel, the Brussels-based think-tank, points out that the combination of poor public finances and uncompetitive industries has proved lethal to nations on Europe’s southern periphery. To restore competitiveness, countries need to “deflate” by cutting wages and prices, “but if prices go down and your debt remains high and the economy shrinks, then the burden of your debt rises”. The risk, Mr Pisani-Ferry says, is that parts of the eurozone become “a sort of Mezzogiorno or eastern Germany, in which you get no adjustment and high levels of unemployment”. Such a scenario would be highly dangerous for the ECB. The danger is that it would be forced to expand the programme into full-blown “quantitative easing”, in which the inflationary impact is not offset by withdrawing liquidity from other parts of the financial system».


Il mercato azionario

Partiamo dalla natura e dalla qualità dei numeri negli Stati Uniti. Natura: la volatilità degli utili è molto elevata, se vista in prospettiva storica. Dalla metà degli anni Cinquanta alla metà degli anni Ottanta gli utili salivano (scendevano) quasi del 4% per ogni 1% di ascesa (discesa) del Pil. Da allora a oggi, la variazione è del 20% per ogni 1% di variazione del Pil. Morale, la crescita, se sarà modesta oppure normale, avrà un impatto formidabile sugli utili. Qualità: la differenza fra gli utili «veri» – quelli comprensivi di tutte le rettifiche di bilancio – e quelli dichiarati – ossia che le aziende ritengono essere quelli «tendenziali», e che sono i preferiti dagli analisti sell side –, è crescente nel tempo. Passando allo stato patrimoniale, negli anni Ottanta l’attivo in rapporto al patrimonio netto che esclude gli avviamenti è passato da un rapporto di 2,5 a uno di 4,5. Durante la crisi si è visto quanto poco valgano gli avviamenti. Perciò gli utili sono molto volatili, e di qualità non eccelsa. Il patrimonio, infine, risente della stima del valore degli avviamenti.

Un argomento di cui si discute poco è quello relativo alle imposte. Esse sono scese nel tempo, dal 50% negli anni Cinquanta al 30% negli ultimi anni. Se immaginassimo quali utili mai avremmo con le imposte del passato, che potrebbero tornare in auge grazie alle politiche volte a controllare la dinamica dei debiti pubblici, bene, dovremmo, tutto il resto essendo eguale, ridurli molto.


Conclusioni

Secondo noi, considerando i rendimenti probabili e i rischi che si corrono, è ragionevole l’acquisto di obbligazioni in euro a breve termine, che non rendono quasi nulla. Non rendono quasi nulla, ma, allo stesso tempo, sono un parcheggio in cui bivaccare tranquilli nell’attesa che le cose raggiungano un equilibrio inferiore, ossia che i prezzi delle azioni e delle obbligazioni finiscano su livelli più bassi. Pensiamo, infine, che, nelle condizioni date, lo spazio in discesa delle azioni sia maggiore dello spazio sempre in discesa delle obbligazioni.


Giugno 2010

    
           Stati Uniti

    
       Europa euro


Azioni / Obbligazioni

                --

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Obbligazioni / Liquidità

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Quando la previsione è di un’attività finanziaria che va molto peggio di un’altra, il giudizio è «---»; 
«--» o «-» sono giudizi meno negativi. 
Lo stesso vale con «+++» e, a scendere, con «++» o «+».



 

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