Che cos’è il potere? La capacità di influenzare il prossimo e fare in modo che realizzi sogni, desideri e ordini. Il potere può essere esercitato mediante la violenza, il timore, la seduzione. In Asia centro-meridionale, una persona potente è in grado di percorrere queste tre strade nello stesso momento. In India, la famiglia Gandhi preferisce la strategia del pugno d’acciaio in guanto di velluto. Pochi infatti, se non nulli, sono i suoi coinvolgimenti in un qualche caso di omicidio politico. Comprensibile. Se i Gandhi avessero le mani sporche di sangue, crollerebbe l’idea dell’India come più grande democrazia del mondo. No, loro per ottenere qualcosa preferiscono farlo con gentilezza, mistero e imperscrutabile persuasione.
La dinastia Bhutto invece, che domina in Pakistan da due generazioni, è più rude. Non si fa scrupolo di ricorrere alle maniere sbrigative per risolvere le questioni. Comprese le faide interne tra fratelli. Questo perché il Pakistan è esso stesso più grezzo dell’India.
Attenzione alle analogie quindi. La dinastia che regna a Islamabad non è pari a quella sovrana a Delhi. Zulfikar Ali Bhutto, il patriarca, non viene considerato padre della patria. Com’è invece per Jawarhalal Nehru. Il suo dominio inizia più di 25 anni dopo l’indipendenza del Paese, nel 1973. Ed è costellato da una serie di sconfitte (contro l’India) e zone d’ombra che la sua immagine, per quanto Islamabad insista a venerarla, resterà sempre compromessa. La guerra del 1971 che ha portato all’indipendenza del Bangladesh e al pericoloso stallo in Kashmir, conflitto dimenticato e tuttora irrisolto, rappresenta una palese sconfitta militare di cui l’allora primo ministro Bhutto è stato il diretto responsabile. Un uomo facile alla dissimulazione, Zulfikar Ali Bhutto. Premier di una nazione schiettamente musulmana sunnita, mentre lui era uno sciita appassionato di whisky d’annata.
La grande differenza dai Gandhi è che i Bhutto si sono fatti fuori a vicenda. Oltre che essere stati eliminati in attentati ed esecuzioni pubbliche. Dei figli di Zulfikar, ormai l’unica sopravvissuta è Sanam: 56 anni, residente a Londra, si tiene lontana dalla politica. Almeno così dà a vedere. L’ex marito è stato accusato comunque di essere colluso con le manovre tangentiste della nuora Benazir. Quest’ultima, la prima donna premier di un Paese a maggioranza musulmana, è stata uccisa nel 2007 in un attacco terroristico. I fratelli, Murtaza e Shanawaz, sono invece morti in circostanze poco chiare. Dell’omicidio di Shanawaz, nel 1996, si può dire quasi con certezza che il mandante fosse Zia ul-Haq, generale golpista e carnefice di Zulfikar. L’eliminazione di Murtaza, nel 1985, sembra ricondurre a Benazir e a suo marito, Asif Ali Zardari. Entrambi ambivano al controllo del Pakistani People’s Party (Ppp), ma pare che Murtaza non fosse per la quale. Oggi Benazir e fratelli sono morti. Zardari è presidente della repubblica.
Genealogia e sangue fanno la differenza tra i Bhutto e i Gandhi. Uguale è il livello di corruzione. Le inchieste sulle tangenti pagate a Benazir, quand’era primo ministro, e a suo marito non si contano. La più celebre è quella che ha coinvolto alcune società svizzere e per la quale è stato chiamato in causa l’Onu, affinché facesse luce sul caso.
Uguale è anche la trasmissione dei poteri. Di padre in figlia. Di moglie in marito. E infine di nuovo di padre in figlio. In sequenza si parte da Zulfikar e si arriva a Bilawal Zardari Bhutto, figlio dell’attuale presidente e dell’ex premier uccisa. Sul rampollo – 25 anni a settembre – si è speculato abbastanza. Soprattutto dopo il suo primo comizio, organizzato dal Ppp alla fine del 2012. In vista delle elezioni di maggio, il partito di famiglia ha deciso di investire sull’anello più giovane della dinastia. L’immagine del padre presidente è sempre meno presentabile. Il Pakistan è ancora beneficiario di 1,7 miliardi di dollari annui dagli Usa. Secondo la Legge Kerry-Lugar si tratta di aiuti nell’ambito della sicurezza che Islamabad dovrebbe destinare alla guerra contro i talebani. I soldi però in parte vanno ad alimentare le tensioni con l’India, in parte finiscono nel buco nero delle tasche di politici, militari e burocrati corrotti. L’illecito è anch’esso una somiglianza tra India e Pakistan. Ma se Islamabad vuole continuare a prelevare dal bancomat statunitense, la tessera deve passare in mani ufficialmente più candide.
Ma la differenza tra i Bhutto e i Gandhi diventa palese se si guarda alla rispettiva efficienza di governo. La “casa reale” indiana non ha risolto i problemi del subcontinente. È anche vero che non si può chiedere a quattro generazioni di governanti di cambiare radicalmente le sorti di oltre un miliardo di anime. E tanto meno migliorarne le condizioni di vita. Tuttavia, è un dato di fatto che Delhi abbia raggiunto risultati politici, economici e sociali. Mentre Islamabad è ancora ad arrancare in una tortuosa via di sviluppo.
Alla fine degli anni Ottanta, quando Benazir Bhutto formò il suo primo governo, il Ppp sostenne una campagna per le privatizzazioni delle grandi industrie del Paese. Energia, risorse idroelettriche, ferrovie. Si sarebbe dovuto trattare di una maxi conversione economica. Tuttavia, fu lo stesso esecutivo – con la premier in testa – a traghettare il progetto verso le secche dei rallentamenti burocratici.
Per la vendita dei suoi gioielli produttivi, Islamabad avanzò cifre che per gli acquirenti privati, stranieri e nazionali, apparvero inaccettabili. Inoltre pretese il mantenimento dei suoi privilegi governativi. Islamabad avrebbe voluto continuare a dettare le politiche industriali di ogni singola azienda e avrebbe imposto il mantenimento della sua classe dirigente. Così le industrie privatizzate sarebbero state gestite ancora dal civil servant statale. Inadeguato al mercato, ma obbediente alle istituzioni.
Dal canto loro, gli investitori non rimasero a subire i diktat di Bhutto & Co. Chiesero la liberalizzazione anche del mercato del lavoro – avanzando quindi il diritto di licenziamento – cosa che per il Ppp, di estrazione socialista, era fuori discussione. Ma soprattutto pretesero che il governo garantisse loro credito illimitato, sussidi sine die e prezzi calmierati. In pratica, così come l’esecutivo non voleva perdere il controllo delle imprese, a queste ultime tornava comoda la manna governativa.
Sul fronte del mercato del lavoro, anch’esso liberalizzato in maniera fittizia, il governo Bhutto promosse la nascita incontrollata di associazioni sindacali. I 120mila dipendenti delle ferrovie pakistane si sbriciolarono in almeno 160 sigle di rappresentanza. Il risultato fu ovviamente il caos e la facile intromissione delle istituzioni pubbliche. Divide et impera. Chissà come si dice in urdu.
Il primo governo Bhutto cadde nel 1990. Il successore, Nawaz Sharif, cercò di rimediare ai danni. Senza risultati. Soprattutto perché non era sua intenzione. Tornata al potere tra il 1993 e il 1996, la Bhutto riuscì a mantenere in sospeso il Paese. Lasciando che la popolazione credesse alla promessa di rinnovamento, mai avviata, e che il marito con la sua cricca di tangentisti restasse impunito. Tutto questo finì nel 1999, quando il generale Perves Musharraf detronizzò il premier Sharif, che nel frattempo era tornato al potere. Con Musharraf furono le Forze armate a prendere il controllo del Paese. Ma questa è la storia di un’altra lobby.
I Bhutto, i Gandhi, i clan, gli eserciti. Vista così la cronaca del Grande gioco presenta attori anacronistici per le nostre analisi. In realtà si tratta di lobby che noi difficilmente riusciamo a declinare. Per l’Occidente, il potere di una famiglia si pesa facendo riferimento a sostanze e concretezze. La Fiat per gli Agnelli, il Senato a Washington per i Kennedy. Noi ci misuriamo su cifre e bilanci. Il potere in Asia resta ancora qualcosa di impalpabile. La violenza è tangibile. Ma è l’ultima spiaggia. La famiglia Gandhi l’ha abbandonata alle sue spalle. I Bhutto lo stanno facendo. Timore e seduzione invece, quelli delle tragedie shakespeariane, sono ancora attuali. In India come in Pakistan. Perché il capo famiglia, ancora di più se è donna, sa far tremare le gambe. Ma gli basta anche un solo sguardo per convincere chi gli sta di fronte a obbedire senza fiatare. (Continua -3)
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