«Ora siamo tutti socialisti», dichiarava una copertina di «Newsweek» a febbraio (1). Nel circolo dei socialisti erano finiti anche personaggi come Larry Summers, sostenitore del mercato e della deregulation a (quasi) ogni costo negli anni Novanta, poi ridotto a keynesiani consigli: «Keynes disse a uno che lo accusava di incoerenza: “Quando cambiano le circostanze, io cambio la mia opinione”» (2). Il 20 maggio il Republican National Committee ha approvato una soluzione che chiede ai democratici di «smetterla nello spingere il paese verso il socialismo».
La Campaign for America’s Future and Media Matters sostiene in un paper (3) che l’America non è più un paese di destra, ma anzi è parecchio di sinistra. I guru conservatori gongolano: nel vuoto assoluto in cui naviga il partito repubblicano – a spasso tra Dick Cheney e Colin Powell e orbo del passato economico reaganiano – «socialismo» è la parola del riscatto. Perché dire socialista, in America, è come evocare spettri mostruosi; dire «diventeremo come i francesi» è come condannarsi al big government e alla vittoria della burocrazia statalista sull’effervescenza imprenditoriale. È come uccidere il sogno americano. Il passaggio dall’intuizione alla battaglia politica è presto fatto, visto che un sondaggio condotto all’interno del mondo conservatore da Rasmussen (4) afferma che il 70 per cento considera la politica economica di Barack Obama «socialista» o «marxista» (sono sinonimi!), per l’11 per cento è addirittura «comunista».
In realtà, gli scettici come Simon Johnson dicono (5) che non è neppure riuscita la famosa «dottrina Emanuel», quella che prende il nome dal capo dello staff di Obama, Rahm Emanuel, e che recita: «Mai sprecare una grave crisi». Il sistema americano è stato ingolfato da una serie di investimenti pubblici che non hanno ancora dato risultati concreti – è ancora presto, ribattono i difensori – e che non ha neppure riformato il sistema finanziario. Quel che è certo è che sono stati stanziati 4.000 miliardi di dollari e, come dice Obama stesso, «non è neppure ancora stata fatta la riforma della sanità».
Di certo, la presenza dello stato nell’economia è aumentata. Se General Motors – già ribattezzata Government Motors (6) – finirà, come dicono (7), al 70 per cento nelle mani del governo, la nazionalizzazione non sarà più soltanto uno spettro. Ma ancora non è chiara la direzione che l’amministrazione Obama vuole prendere. Pareva volesse un New Deal moderno – con i banchieri a fare la parte dei leoni, salvati e glorificati –, ma al momento si è accontentata di uno sforzo di interventismo tanto ingente quanto poco focalizzato. Tanto che i socialisti veri, il Partito socialista americano, non pensano affatto che Obama sia un compagno. Uno di loro, Billy Wharton, ha scritto (8) che Obama è uno che cerca di salvare a ogni costo il capitalismo, «un democratico hedge-fund, uno della generazione neoliberal di politici fermamente convinti del libero mercato».
Il presidente ribadisce (9) di non essere un socialista e che queste sono misure d’emergenza, non certo preferenze ideologiche. Ma nella strada a metà tra il mercato e il big government c’è un sacco di debito da smaltire e un’economia debole da far ripartire.
(1) http://www.newsweek.com/id/183663
(2) http://www.newsweek.com/id/185934/page/1
(3) http://www.ourfuture.org/files/Center-Left-Nation.pdf
(4) http://www.rasmussenreports.com/public_content/politics/general_politics/just_53_say_capitalism_better_than_socialism
(5) http://baselinescenario.com/2009/05/26/the-crisis-is-over-and-we-wasted-it/
(6) http://www.time.com/time/business/article/0,8599,1901345,00.html?iid=tsmodule
(7) http://dealbook.blogs.nytimes.com/2009/05/28/gm-reaches-a-deal-with-bondholder-committee/
(8) http://www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2009/03/13/AR2009031301899_pf.html
(9) http://www.nytimes.com/2009/03/08/us/politics/08callback.html?_r=1
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