Continuamo a raccontare la battaglia delle idee negli Stati Uniti. Al solito, trovate i link. Questa settimana commentiamo la discussione se gli storici possano criticare glli economisti.


La storia insegna che c’è sempre una lezione da trarre. Tanto che ormai i bestseller in America sono i libri che raccontano che cosa è andato storto oggi sulla base di quel che è successo in passato. C’è Alan Beattie, del «Financial Times», che con False Economy. A Surprising Economic History of the World spiega – attingendo a piene mani alla behavioral economics”, alla storia, agli asparagi e ai panda – dove e perché i sistemi economici possono saltare. C’è Justin  Fox, di «Time», che con The Myth of the Rational Market: A History of Risk, Reward, and Delusion on Wall Street racconta attraverso i personaggi la storia di Wall Street con i suoi tanti e spesso reiterati fallimenti.
 
Ma studiare la storia serve davvero a prevenire altri errori o semplicemente ci porta a commetterne di nuovi? Se l’è chiesto uno degli economic-bloggers più pop del momento, Felix Salmon (1), che, non sapendosi dare una risposta, ha sottoposto la questione proprio a Beattie e Fox.
 
L’uomo forte del «Financial Times» ha risposto che sì, la storia serve, basta saper apprendere la lezione giusta e l’esempio giusto cui fare riferimento (il che non è scontato): «L’attuale riluttanza della Germania ad aumentare lo stimolo fiscale – spiega Beattie – si basa sull’assunzione che siamo in una situazione inflattiva come quella degli anni Venti e degli anni Settanta, non una deflattiva come quella degli anni Trenta». Certo, conclude Beattie, è un bene che un economista-storico come Ben Bernanke sia a capo della Fed: lui sarà in grado di comprendere le lezioni giuste.
 
Justin Fox sottolinea che Bernanke non è uno storico tout court, semmai è un macroeconomista specializzato in Grande Depressione, ma certo è un bene che sia lì, «è uno che legge tanto, saprà capire». Pure sulla storia Fox concorda, il suo libro di fatto parla di persone che hanno voluto ignorare gli eventi passati con l’ambizione di creare modelli finanziari nuovi e di fatto sono fallite: «Meglio ascoltare il passato».
 
Quindi lo studio della storia serve, a patto che si sappia capire la storia. E questo ci riporta a uno dei dibattiti più divertenti di questi tristi mesi di crisi, quello per l’appunto tra uno storico di Harvard e un economista di Princeton, Niall Ferguson e Paul Krugman, nato dalla sfida del primo così sintetizzata: «Un gatto può guardare un re e talvolta uno storico può sfidare un economista». Al centro del dibattito c’è l’esplosione del debito pubblico nel mondo anglossassone dopo l’approvazione di pacchetti di stimolo giganteschi. Il principio alla base è quello keynesiano secondo cui la spesa pubblica incentiva i consumi, rilancia l’economia e, a tassi di crescita in aumento, il debito è riassorbito. Krugman è convinto (2) che questa sia la strada e che l’amministrazione Obama stia sbagliando perché non spende a sufficienza. Ferguson sostiene (3), al  contrario, che la storia insegna che un debito pubblico eccessivo (in dieci anni potrebbe arrivare al 140 per cento del reddito nazionale) rende ingovernabile un paese e mina persino le grandi potenze: a dimostrazione c’è già la politica a tentoni (4) di Washington con la Cina.

Tra i due  litiganti, lo storico «ma anche» economista Bernanke (oppure, economista «ma anche» storico) afferma che un deficit pubblico così grande (circa 2.000 miliardi di dollari quest’anno) non è sostenibile nel famoso lungo periodo (5), quello in cui saremo tutti morti. Con buona pace per Keynes che, come afferma, facendo ovviamente arrabbiare molto i keynesiani, Tom Sargent, il pioniere delle «aspettative razionali» (6), non dovrebbe neppure essere letto (!).
 
E via polemizzando.