Aggiungere qualcosa alla massa autorevole di commenti sulle tristi vicende che hanno riguardato quattro banche italiane di medie o piccole dimensioni può essere probabilmente azzardato. Alcune cose si possono però aggiungere partendo da alcuni presupposti che cambino almeno in parte l’angolazione della vicenda. Sono due gli aspetti che meritano alcune riflessioni: 1) la banca imprenditrice e 2) margini e commissioni.
La banca imprenditrice. Può avere un sapore dissacratorio il ragionamento che vorrebbe attribuire all’attività bancaria anche una qualche caratteristica di natura imprenditoriale, per certi versi assimilabile alle realtà di altri settori siano essi l’agricoltura, l’industria o i servizi (di cui le banche fanno parte). Ancor più nello scenario attuale dove il peso specifico dei debiti pubblici dei paesi sviluppati è cresciuto anche e soprattutto a causa dei salvataggi delle banche con i soldi dei contribuenti (ad eccezione dell’Italia) con la conseguente ancora maggiore influenza del settore pubblico nelle dinamiche bancarie.
Di fatto una banca diventa sistemica esattamente come lo può diventare una azienda appartenente ad altri settori. Una piccola banca appena costituita non rappresenta un rischio sistemico esattamente come una nuova azienda ha un impatto inizialmente insignificante sul mercato. Quando la banca o l’azienda si ingrandiscono entrambe tendono a diventare sistemiche. Nella fasi espansive e quando i bilanci sono positivi e solidi la differenza tra banche e società non finanziarie risiede solo nella diversa tipologia di attività. L’impatto è diverso nella fasi di crisi quando il rischio che le difficoltà di un singolo operatore si ripercuotano su altri operatori è maggiore, se non esclusivo, per il settore bancario rispetto alle crisi che possono attraversare le singole aziende non finanziarie.
Se non ci fosse anche un aspetto imprenditoriale, imputabile alla ormai quasi perduta figura del banchiere, si potrebbe ipotizzare la tendenza irreversibile verso un regime monopolistico dove esiste una sola banca presumibilmente a controllo pubblico, magari con qualche marchio diverso come unico elemento di distinzione. E’ probabile che si stia verificando un fenomeno di questo genere vista la drastica riduzione del numero di banche negli USA ed in Europa. Ma questa tendenza appare ancora più rischiosa per ovvi motivi in quanto l’eccessiva riduzione del numero di operatori rappresenta una evidente tendenza alla concentrazione dei rischi sistemici.
Margini e commissioni. L’uscita dal mercato delle quattro banche italiane (Etruria, Marche, Chieti e Ferrara) è stata determinata anche dalle scelte dei banchieri che le hanno guidate oltre che da uno scenario certamente di particolare difficoltà per l’intero settore. Molto sinteticamente, la drastica riduzione dei margini della gestione del denaro (differenza tra i ricavi derivanti dagli impieghi e il costo della raccolta) si è verificata in presenza di costi di struttura troppo elevati e rigidi. L’insufficiente attenzione alla parte commissionale dei ricavi, in particolare la rinuncia o la sottovalutazione delle stabili commissioni derivanti dalla gestione dei patrimoni di terzi – il cosiddetto Asset Management – ha impedito di creare un fonte stabile di ricavi per i momenti difficili. Il fatto è ancora più evidente per un paese caratterizzato da una forte propensione al risparmio come l’Italia.
Inoltre, strutture di costo troppo importanti hanno impedito di accantonare risorse patrimoniali nelle fasi favorevoli di mercato da dedicare alla copertura preventiva delle sofferenze la cui forte crescita ha accompagnato la recente fase recessiva e pur tenendo conto degli scarsi incentivi fiscali a costituire riserve per i tempi grami. Sono stati sacrificate le aree a maggiore valore aggiunto per sopperire alle fragilità delle aree meno redditizie ma che disponevano di una maggiore forza contrattuale sia all’interno che all’esterno.
Il grande successo di realtà satelliti o autonome che forniscono servizi di gestione dei patrimoni della clientela, sotto diverse forme, si basano sulla regolarità dei ricavi commissionali e sullo scarso assorbimento di risorse patrimoniali essendo il rischio sostenuto esplicitamente dal cliente. In alcuni casi le scelte sono fatte in totale autonomia dai clienti e il fornitore percepisce una commissione che paga gli investimenti tecnologici e in risorse umane necessari per accedere agli strumenti finanziari. In altri casi, i più evoluti, il cliente si affida a professionisti a cui vengono delegate le scelte di investimento con costi commissionali più elevati.
La percezione dell’importanza strategica della gestione delle risorse finanziarie del risparmio dei clienti (cosiddetto asset management) rispetto alla classica intermediazione bancaria (spread tra impieghi e raccolta) ha indotto le banche meno avvedute ad internalizzare una attività complessa e delicata. La convinzione di poter dedicare risorse non idonee ad una attività con caratteristiche troppo distanti dalla classica gestione della clientela di filiale (mutui, conti correnti, certificati di deposito, persino la più sofisticata gestione corporate) ha generato l’equivoco e il disastro senza ovviamente riuscire a catturare i margini reddituali immaginati.
L’epilogo delle quattro banche commissariate e sottoposte al bail-in, ovvero al salvataggio con risorse provenienti dagli azionisti e obbligazionisti, rappresenta esattamente il contrario di quanto prefissato. Si è passati dalla storica visione della banca nata per tutelare il cliente/risparmiatore alla nuova visione del cliente/risparmiatore che salva la banca. Il risultato è particolarmente amaro per i clienti e per in generale la categoria dei risparmiatori ma anche per le specifiche realtà bancarie di dimensioni contenute che hanno alle spalle storie di tipo imprenditoriale pensate e costruite a partire dalle esigenze di gruppi ristretti o allargati che volevano svincolarsi dalle grandi banche o che semplicemente non riuscivano ad accedere al credito bancario, come nel caso dei principi ispiratori delle banche cooperative.
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