Abbiamo da commentare due andamenti. Il timore che la globalizzazione elimini dei posti di lavoro che non sono poi sostituiti – con quello collegato degli effetti di questo andamento sulla politica - è il primo tema. L'idea – basata su delle assunzioni non realistiche - che il reddito di cittadinanza possa aiutare ad ottenere un maggior deficit pubblico grazie alla sua capacità di far emergere la disoccupazione nascosta è il secondo tema.
1 – Globalizzazione, disoccupazione, e ambiti comunitari
La globalizzazione ha una “barriera assorbente” che sorge dalla meccanica stessa degli scambi. Man mano che gli scambi di servizi diventano più numerosi, la crescita della globalizzazione rallenta. Posso, infatti, comprare un elettrodomestico prodotto in Asia, ma non prendo l'aereo per andare in Asia a mangiare la pizza. Una seconda “barriera assorbente” sorge dalla meccanica stessa degli scambi da intendere come rivolta di chi perde o teme di perdere il proprio lavoro. La seconda “barriera assorbente” richiede una premessa sui vantaggi comparati (1).
L'idea di David Ricardo che i Paesi, specializzandosi nell'attività che sanno meglio svolgere, possono solo guadagnare dal commerciare fra loro, non è comunemente accolta, al contrario dell'idea di Adam Smith del movente egoistico che spinge al benessere di tutti. In questo secondo caso – quello di Adam Smith - chi perde il lavoro è il macellaio che vende la carne con la peggiore combinazione qualità/prezzo. La sua punizione è quindi “giusta”, perché dipende dal suo “libero agire”. Nel primo caso, quello di David Ricardo - invece, chi perde il lavoro non è imputabile – almeno direttamente – di un comportamento economico che dipende da suo “libero agire”. La sua punizione è quindi “ingiusta” (2). Perché mai?
Il primo vantaggio del libero commercio è la specializzazione, Il secondo vantaggio del libero commercio sono i mercati allargati e di conseguenza le economie che crescono di dimensione. Se gli occupati delle imprese e dei settori eliminati dalla concorrenza non trovano una nuova occupazione in un tempo ragionevole, possono trovarsi in grave difficoltà. E' il caso degli occupati poco specializzati dei settori a bassa tecnologia, quando arrivano le merci da un Paese che ha un vantaggio competitivo sul versante del costo del lavoro. Nei modelli economici dagli anni Quaranta fino agli anni Ottanta si assumeva che i dismessi dei settori meno competitivi sarebbero passati ai settori più competitivi in poco tempo e senza particolari frizioni. Quest'assunzione aveva funzionato fra i Paesi sviluppati aperti al libero commercio per i primi decenni del Secondo dopoguerra. Poi è arrivata l'Asia. I vantaggi che i consumatori ottengono grazie ai beni che costano meno, e i vantaggi che le imprese dinamiche ottengono dalla messa in mobilità dei lavoratori delle imprese meno dinamiche, non compensano gli svantaggi che sorgono per le imprese e per gli occupati che subiscono la concorrenza asiatica. Una delle ragioni è la diffusione delle imprese. Questa non è omogenea su tutto il territorio, ma è concentrata in alcune aree geografiche. Se un'area è molto specializzata e va in crisi, ecco che nella stessa area è difficile trovare lavoro presso le imprese che svolgono un lavoro diverso, perché non ve ne sono e/o ve ne sono ma non a sufficienza. Accade poi che il voto “di protesta contro le élite” si concentri in queste aree (3).
Questo andamento è stato confermato dagli studi più recenti condotti sugli Stati Uniti. La concorrenza asiatica di un tempo – negli anni Ottanta e Novanta quella giapponese e delle “tigri” - non aveva avuto lo stesso impatto di quella che ha oggi quella cinese. L'impatto della prima concorrenza asiatica si era, infatti, manifestata in aree propense al mutamento, a differenza dell'impatto della seconda. Questo diverso andamento si spiega con il passaggio dall'innovazione alla standardizzazione. Con la standardizzazione l'ubicazione della produzione si sposta, lontano dai punti di innovazione - laddove si hanno le popolazioni più istruite - verso comunità che, al contrario, potrebbero non reagire alla disoccupazione prodotta dalla concorrenza asiatica. Lo shock cinese si è manifestato nelle aree con i lavoratori meno istruiti e nei luoghi in cui i posti di lavoro erano già diminuiti tra il 1960 e il 1980 (4).
Che fare - in generale - con le aree depresse (5)? La riluttanza di alcuni economisti ad abbracciare l'idea della protezione delle comunità ubicate nelle aree depresse ha questa ratio: gli sforzi per aiutare le comunità in difficoltà potrebbero scoraggiare la gente a muoversi verso aree più promettenti. Secondo altri, questa idea è miope, perché le comunità non sono solo una fonte di attrito che inibisce il funzionamento dell'economia globale, ma una parte indispensabile di una società “sana”.
Che le comunità vadano difese può sembrare un'osservazione banale per i non-economisti. Per la maggioranza degli economisti, invece, il progresso economico che ha sostituito le interazioni personali dirette dette comunitarie con quelle più efficienti ma impersonali dei mercati è un “progresso”. L'attività economica basata sulla comunità, infatti, può essere inefficiente. Un esempio: prestare denaro a un amico o prendersi cura di un parente malato è a un primo sguardo “una cosa giusta”. Ma i mercati finanziari grandi e trasparenti attirano fondi ed ampliano l'accesso al credito, mentre un ampio mercato per la cura dei malati dà luogo specializzazioni che aiutano a migliorare la salute.
Resta il malessere. La globalizzazione e il cambiamento tecnologico hanno privato molte fonti di occupazione e ricchezza. Le sorti sembrano sempre più determinate da lontano, da organizzazioni sovranazionali come l'UE, o dai mercati finanziari volubili. L'opportunità si è concentrata in costose città superstar, che attraggono i membri più talentuosi delle comunità e lasciano a tutti gli altri senza tali opportunità. I residenti frustrati di luoghi in difficoltà diffidano delle élite e cercano invece un significato nelle politiche dei leader populisti.
Dire poi “globalizzazione” certo non basta, perché abbiamo il “capitalismo dei compari” nei Paesi in via di sviluppo e la concentrazione delle rendite e delle imprese maggiori nei diversi settori in quelli sviluppati (6). Infine, i Paesi in via di sviluppo alimentano le autocrazie (7), quelli sviluppati il populismo.
2 – https://www.foreignaffairs.com/articles/2018-12-11/free-trade-paradox
3 - https://www.ft.com/content/cbf2a01e-1f41-11e9-b126-46fc3ad87c65
4 - https://www.economist.com/finance-and-economics/2019/03/07/why-did-the-china-shock-hurt-so-much#
7 - https://www.foreignaffairs.com/articles/china/2019-03-06/problem-xis-china-model
2 – Reddito di cittadinanza, output gap e maggior deficit
Abbiamo un'area relativamente depressa – il Meridione (1) – ed una proposta per provare a rendere meno difficile questo stato delle cose – il reddito di cittadinanza (2). Per una via o per l'altra la forza politica che oggi è maggiormente radicata nel Meridione (3) spinge nella direzione delle politiche di spesa pubblica in deficit - di cui quasi mai si affronta la complessità storica (4). La convinzione che la spesa pubblica spinga sempre verso la crescita economica ha come radice l'idea che in economia prevalgano i “fattori fissi” (5). L'idea emersa di recente per aumentare la spesa in deficit è quella di usare il reddito di cittadinanza per aumentare la spesa in deficit. Si noti, non per la parte di deficit che il reddito di cittadinanza già alimenta, ma come strumento per far emergere lo spazio negoziale con le autorità europee per un deficit ulteriore. Ecco come (6).
Per ottenere il reddito di cittadinanza (RdC) si deve essere disoccupati (e poveri). Posta questa condizione iniziale, ecco che lo si richiede. La richiesta del RdC da parte dei disoccupati fa emergere una disoccupazione altrimenti nascosta. La disoccupazione detta degli “scoraggiati”, di quelli che avevano smesso di cercare attivamente un lavoro. Ossia, grazie al reddito di cittadinanza, l'Italia mostra un tasso di disoccupazione maggiore di quello che esibisce attualmente.
Il tasso di disoccupazione è uno degli indicatori che servono per stabilire – meglio per negoziare con le autorità europee - quanto spesa in deficit si possa fare. Come? Si ha il “PIL potenziale” quello che si avrebbe con piena occupazione del lavoro e del capitale. (Un numero stimato, un “controfattuale”). Si ha poi il “PIL effettivo”, ossia la produzione annuale di beni e servizi di un'economia. (Un numero effettivo, un “fattuale”). La differenza fra i due PIL è l'”output gap”, ossia la distanza fra il potenziale e l'effettivo (7).
Questa distanza la si può colmare. Come? Si può aumentare la spesa pubblica in deficit, oltre i vincoli normali, come quello del famigerato tre per cento. Attraverso la maggior spesa pubblica è aumentata la domanda aggregata. Quest'ultima è resa stabile dall'intervento pubblico che, alzando il livello delle spese per consumi e investimenti, riduce l'incertezza sulla consistenza della domanda futura – incertezza che si ha quando si prendono le decisioni di investimento.
Fin qui sembra che tutto funzioni. Meglio, tutto funziona se l'output potenziale italiano tiene conto del lunghissimo periodo. Ossia, se sono stabili le relazioni lunghissime che includonbo il periodo della crescita per cui un intervento di spesa in deficit riporta l'economia effettiva verso quella potenziale. Un'economia che non cresce da molto tempo come quella italiana ha perso la tendenza positiva formatasi in passato, quando ancora mostrava una forte crescita. Segue che il suo trend di crescita potenziale, se calcolato non tenendo più conto del lunghissimo periodo, ma solo di quello medio, non può che essere minore (la retta del PIL potenziale mostra una pendenza che si abbassa). Se il potenziale dell'economia è diminuito ecco che anche l'output gap diminuisce. Può accadere addirittura che il PIL potenziale sia sceso così tanto da diventare quasi eguale a quello effettivo.
Se le cose stanno così, il RdC che fa emergere la disoccupazione nascosta non farebbe altro che mostrare un'economia in stagnazione. SI avrebbe così una stagnazione resa ancor più manifesta di quanto non si sappia già. A ciò si aggiungano i meccanismi di erogazione che probabilmente renderanno - per effetto dell'assenza della domanda di lavoro in alcune aree del Paese - il RdC da temporaneo a permanente (8).
Argomenti imortanti come questo appena discusso richiedono che si segua un approccio tecnico e non “immaginifico”, come, invece, spesso accade. Un esempio di approccio imaginifico - emerso negli ultimi tempi – è quello della minor crescita italiana dovuta all'adozione dell'euro. Con la minor crescita dell'Italia calcolata in maniera a dir poco bizzarra. Relativamente al passato – ossia fino agli anni Novanta - sommando - con pesi diversi - la crescita de PIL inglese, australiano, israeliano, e giapponese si ottiene più o meno la crescita di quello italiano. Se – e qui la meraviglia degli approcci detti di synthetic control - il PIL italiano si è comportato in passato come la combinazione di quello dei succitati Paesi, allora si assume che si sarebbe comportato allo stesso modo anche negli anni seguenti, naturalmente se l’Italia non fosse entrata nell’euro. La differenza che si ottiene sottraendo la crescita potenziale ottenuta con il succitato calcolo e la crescita effettiva è il “costo dell'euro”. Costo che naturalmente risulta abnorme (9). E riecco il solito capro espiatorio (10).
5 - Se i bisogni primari – abitare, mangiare, bere, curarsi - sono fissi, le tecnologie per soddisfarli saranno anch'esse fisse – o meglio, miglioreranno ma solo marginalmente. In questo caso, dato che si chiedono le stesse cose prodotte con gli stessi metodi - la soluzione è quella di rilanciare la domanda. La quale domanda fa sempre crescere l'economia. Si noti il “sempre”. Se anche i contratti disincentivano le imprese dall'assumere, ecco che, rilanciata la domanda, queste torneranno ad impiegare. Se le persone andassero prima in pensione, ecco che verrebbero assunti i giovani per sostituire gli anziani. Non per caso le proposte dei populisti italiani sono quelle di aumentare il reddito a disposizione – ciò che tradisce la preferenza per il lato della “domanda”, mentre si cerca di rendere meno liquido il mercato del lavoro – ciò che tradisce indifferenza verso il lato della “offerta”.
7 - http://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/BRIE/2016/574407/IPOL_BRI%282016%29574407_EN.pdf
9 - https://www.linkiesta.it/it/article/2019/03/02/leuro-ha-fatto-male-allitalia-ecco-perche-e-una-bufala-colossale/41281/?fbclid=IwAR3pdl0bur4IDS0rJhPNClo9P2BhaoAhODBrqRbld1KW1ZbhBWeGJkPz6_w
10 - Capro espiatorio: “la folla sceglie arbitrariamente un unico individuo ritenuto responsabile e lo annienta. La vittima finisce così per ricoprire due funzioni: da una parte viene riconosciuta come causa della violenza iniziale e dall’altra come potenza miracolosa che ha fatto cessare i conflitti”.
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