La storia recente del Kosovo si rispecchia nel complesso minerario di Trepča, a pochi chilometri dalla città di Mitrovica: durante l'era jugoslava, queste miniere davano lavoro a più di ventimila persone. Erano essenziali al mantenimento dell'economia della regione, e soddisfacevano quasi interamente la maggior parte del fabbisogno minerario del Paese. Gli anni ottanta segnarono il progressivo declino del polo minerario. Nel frattempo, la Jugoslavia cadeva preda del nazionalismo. Quando Milošević annullò lo status autonomo della provincia di Kosovo e Metohija, nel 1989, gli operai decisero di occupare gli impianti in segno di protesta, in uno sciopero della fame che sarebbe passato alla storia. Fu quello un primo segnale, evidentissimo, del braccio di ferro che da quel momento in poi avrebbe continuato a opporre Belgrado e Priština.
Le miniere di Trepča oggi si trovano in quello che è, con ogni probabilità, lo scenario politicamente più instabile di tutti i Balcani. Nella regione settentrionale del Kosovo, infatti, la popolazione è in maggioranza serba e non ha mai accettato la dichiarazione del 2008, con la quale il Kosovo si rendeva unilateralmente indipendente da Belgrado. Qui, ancora oggi, sono presenti delle vere e proprie "istituzioni parallele" che rigettano l'autorità di Priština. I Serbi si rifiutano di vivere in uno stato egemonizzato dagli Albanesi (che rappresentano più del 90% della popolazione) e non intendono tagliare i legami con la madrepatria.
L'enclave di Mitrovica è divenuta col tempo "il pomo della discordia" al centro delle divergenze tra i due governi, ancora lontani dal raggiungimento di un accordo che possa di normalizzare definitivamente i reciproci rapporti. La Serbia, come condizione per il riconoscimento del Kosovo, chiede infatti che venga istituita una sorta di unione amministrativa comune alle municipalità serbe, dotata di ampissima autonomia: una seconda "Republika Srpska", sul modello di quanto avvenuto in Bosnia Erzegovina dopo la guerra, che non piace per nulla né agli Albanesi né agli Stati Uniti che li sostengono.
Da mesi la politica cerca di venire a capo dello stallo, con una serie di negoziati condotti sotto lo sterile patrocinio dell'Alto Rappresentante della politica estera dell'UE, Catherine Ashton. Nel frattempo, la Trepča muore. Non più di duemila persone sono quelle che vi lavorano oggi. Gli investimenti sono fermi al palo da decenni e il consorzio è subissato di debiti (stimati in 206 milioni di euro). I creditori sono, per lo più, imprese serbe. Si è così creata una situazione molto particolare, con la Trepča che riflette l'impasse del mondo politico: Priština vorrebbe privatizzare gli impianti, ma Belgrado non vuole sentirne parlare. Tra i potenziali acquirenti, ci sono anche gli Stati Uniti i quali, dopo avere aiutato il Kosovo durante la guerra e aver sostenuto l'indipendenza del paese, vi hanno concluso affari d'oro negli ultimi anni.
Uno stallo, quello tra le autorità di Priština e quelle serbe, che non aiuta sicuramente a migliorare la situazione del Kosovo. Già ai tempi della Jugoslavia, la provincia era la più povera del Paese. Oggi, la più giovane Repubblica d'Europa è caratterizzata da un'economia atrofica, incapace di reggersi autonomamente, e da una dipendenza pressoché totale dagli aiuti internazionali.
Il Kosovo non possiede un'economia competitiva, capace di attrarre investimenti. Mancano le strutture adeguate: per di più, esso soffre l'inefficienza delle proprie istituzioni, soprattutto per quanto riguarda il settore giudiziario, e l'incapacità di risolvere problemi strutturali gravissimi come l'elevata disoccupazione giovanile (quella generale si attesta attorno al 45%, ma nella fascia d'età compresa tra i 21 e i 24 anni è del 68%). Secondo le Nazioni Unite, inoltre, ad aggravare il tutto persistono gravi fenomeni di corruzione.
Con un Pil pro capite stimato a circa 2.674 €, il Kosovo è una delle nazioni più povere d'Europa. Il 35% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà: guadagna, cioè, meno di 1,55€ al giorno. Il paese dipende enormemente dalla propria diaspora e dalle rimesse degli emigrati, che rappresentano "la terza voce più importante del Pil", secondo le recenti dichiarazioni di Vlora Citaku, Ministro per l'integrazione europea. In effetti, le rimesse ammontano al 15% del Prodotto interno lordo. Aiuti internazionali e donazioni contano per un ulteriore 7%. La conclusione è impietosa: il Kosovo, lasciato a se stesso, non è capace di produrre lavoro. Per sopravvivere, la popolazione deve ricorrere all'economia sommersa, che alimenta il "settore informale" ma, soprattutto, il crimine organizzato e i traffici illeciti.
Il Kosovo, cinque anni dopo la propria indipendenza, resta quindi una nazione incompiuta che deve ancora gettare le basi reali per la propria esistenza. La sfida che Priština si trova ad affrontare corre su di un doppio binario. Da una parte esiste una questione di riconoscimento politico, legato a Belgrado e ai negoziati con l'Unione Europea (i cui membri, peraltro, non sono nemmeno concordi nel riconoscere l'indipendenza del Paese); dall'altra, c'è da costruire un sistema economico, se non solido, quantomeno accettabile e in grado di attirare investimenti dall'estero.
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