Essere riuscito a rendere appassionante, a tratti persino divertente, il match fra i due giganti del pensiero economico del ‘900, è il merito maggiore – non certo l’unico - del saggio “Keynes e Hayek – Lo scontro che ha definito l’economia moderna” di Nicholas Wapshott (330 pagine, 23 euro, Feltrinelli). Sin dalle prime pagine si intuisce che, fra i due, le simpatie dell’autore vanno a Keynes. Questa preferenza non impedisce a Wapshott di offrire un libro obiettivo, ben documentato, ricco di note e di gustosi aneddoti, alla portata di un pubblico colto ma non necessariamente specializzato.
Keynes sostiene che l’uomo è padrone del proprio destino, mentre Hayek pensa che sia portato a vivere in base a “leggi di natura” anche economiche, è la tesi di Wapshott, che aggiunge: “uno applica le sue idee allo scopo di migliorare la condizione degli esseri umani, l’altro è un economista teorico e astratto, che non ha lavorato neppure un solo giorno nel settore privato”. Nel tratteggiarne la personalità, l’autore racconta che Keynes è stato uno studente eccellente, Hayek pigro e modesto. La vita privata dei due grandi pensatori è scandagliata senza pudori e senza sconti: Keynes è un omosessuale “promiscuo e sfrontato”, partecipe di un gruppo di scrittori libertini e artisti bohémiens; Hayek è protagonista di un divorzio assai poco commendevole dal punto di vista morale. L’inglese è dotato di voce calda e suadente, l’austriaco parla con forte accento straniero, spesso incomprensibile, al punto da guadagnarsi il soprannome di “Mr. Fluctooations” per l’uso frequente e storpiato di questo termine. “E’ affascinante pensare come si sarebbe svolto il suo dibattito con Keynes se fosse stato padrone dell’inglese quanto l’eloquente rivale”, commenta l’autore.
Il libro racconta passaggi cruciali della storia economica del ‘900. John Maynard Keynes abbandona nel ’19 le trattative di Versailles per scrivere il suo celebre saggio premonitore su “Le conseguenze economiche della pace”. Più tardi invita il governo inglese a investire massicciamente nella costruzione di strade, in edilizia e nella rete elettrica, sancisce “la fine del laissez-faire” e dai microfoni della BBC esorta le massaie “con amor di patria” a uscire di casa e a spendere, approfittando delle svendite. Tutto questo allo scopo di sostenere la domanda e di “rendere efficiente il capitalismo”, evitando “rivolte durissime”. Keynes si oppone ai conservatori e appoggia il premier liberale Lloyd George, non è certo un socialista: “mi domando come una dottrina così illogica e idiota possa aver esercitato un’influenza tanto potente e duratura sulle menti degli uomini”, scrive in riferimento a Marx.
In piena recessione, nel 1931, le sue teorie sono oggetto di un duro attacco di Friedrich von Hayek, dando così il via a una contesa che investe l’economia e la politica di tutto il secolo scorso, fino ai nostri giorni. Keynes replica altezzoso e stizzito, Hayek rincara la dose, l’altro allora incarica di una nuova risposta Piero Sraffa, così la discussione si allarga alle due tifoserie, da Londra a Cambridge. Per rendere bene il clima infuocato della disputa, Wapshott ricorre al linguaggio western nella titolazione dei capitoli, da “L’uomo che uccise Liberty Valance” a “Duello all’alba”, fino a “Colpo all’italiana” (l’intervento di Sraffa appunto).
Nel ’36 Keynes pubblica la sua celebre “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”, dando vita alla “rivoluzione keynesiana”. Di fronte al successo del libro, Hayek decide di tacere. Keynes, il cui prestigio è alle stelle, incontra Roosevelt e il premier laburista MacDonald, entrambi assai timidi nell’applicare le sue teorie. Saranno prima il nazismo poi la guerra mondiale a dimostrare la praticabilità della proposta di aumentare la spesa pubblica, sfidando l’inflazione, per sconfiggere la disoccupazione e fare ripartire l’economia. Nel ’44 Hayek pubblica “La strada per la schiavitù” e accusa l’avversario di aprire le porte alla tirannide, ma lo straordinario successo di questo libro è solo editoriale, non politico: due anni dopo Keynes muore mentre le sue idee trionfano, a Bretton Woods e ovunque.
Per tre lunghi decenni le teorie di Keynes dominano la politica economica occidentale. I presidenti americani spendono, indipendentemente dal partito di appartenenza: Eisenhower per fronteggiare la Guerra Fredda, Kennedy per la Nuova Frontiera, Johnson per la Great Society, Nixon più prosaicamente per vincere le elezioni (infatti Friedman lo definirà “il presidente più socialista del XX secolo”). In Europa il piano Marshall finanzia la ricostruzione e consente l’edificazione dello Stato sociale.
Hayek è accusato di essere un reazionario (“The Road to Reaction” gli fa il verso qualcuno) e si consola fondando la litigiosa conventicola di Mont Pelerin, in Svizzera, guadagnandosi gli sfottò di Galbraith senza però risparmiarsi le sfuriate di Mises (“Siete tutti un branco di socialisti!”) e le reprimende della filosofa antistatale Ayn Rand, che a margine di “The Road to Serfdom” annota: “sciocco abissale”, “pericoloso bastardo” e anche di peggio. E’ una lunga e sofferta traversata del deserto, fino alla metà degli anni ’70, quando la stagflazione manda in mille pezzi l’intero impianto keynesiano.
Segue così il trentennio monetarista, dal ’78 al 2008, fondato sulle teorie del più originale e intraprendente discepolo di Hayek, Milton Friedman (ma Hayek sostiene che “la portata della politica monetaria è molto più limitata di quanto si creda”). La curva di Laffer dimostra che, oltre certi limiti, la pressione fiscale è antieconomica. E’ la lunga stagione di Margaret Thatcher, di Ronald Reagan e dei loro epigoni, in primo luogo Alan Greenspan, il monetarista per eccellenza.
Gli ultimi tre capitoli del libro sono sicuramente i più interessanti, per la loro bruciante attualità. Al di là della propaganda, tutti i presidenti americani, tutti i governi occidentali - chi più chi meno – hanno finanziato l’espansione con il deficit di bilancio. Le idee di Hayek sono “il sogno dei conservatori che non hanno una carica, ma non la politica dei conservatori in carica”, spiega Wapshott. Parallelamente all’uscita di Fukuyama sulla “fine della Storia”, si diffonde uno spensierato ottimismo macroeconomico: “Il drago dei cicli è stato ucciso”, l’economia può essere agevolmente gestita grazie al monetarismo. Così continua fino al biennio 2007-2008, quando la vicenda dei subprime e i fallimenti a catena attestano la crisi del principio di autoregolazione. “E’ crollato l’intero edificio concettuale – dichiara scioccato Greenspan davanti al Congresso – Gli istituti non tutelano i loro attivi e gli azionisti”. I moniti di Keynes di 80 anni prima tornano improvvisamente di attualità. Bush prima, Obama poi sono costretti a stanziare somme astronomiche per salvare il sistema, ma l’economia non riparte. “Non si può spingere da dietro con una corda”, il monetarismo non funziona più. “In un certo senso oggi siamo tutti keynesiani” è la conclusione del libro, nelle parole di Paul Krugman. Hayek esce sconfitto sul piano politico, assai più e prima che nella teoria economica. Gli restano di consolazione le parole gentili che Keynes aveva dedicato al suo “The Road to Serfdom”: “Moralmente e filosoficamente mi trovo d’accordo in tutto … Ma Lei sottovaluta ampiamente la via di mezzo”. Una lezione di politica economica, con stile.
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