Quando un dirigente d’azienda diventa famoso come un divo dello spettacolo, che cosa succede? 1. Guadagna più di prima nell’impresa che dirigeva, ossia cresce la differenza di retribuzione rispetto ai suoi pari grado. 2. Ottiene più cariche nei consigli d’imprese terze, ossia siede in più consigli di quanto gli sarebbe accaduto senza gloria. Non solo: 3. Comunica risultati aziendali molto più vicini alla media delle stime degli analisti, ossia prima della gloria la differenza fra risultati comunicati dall’impresa e stimati dagli analisti era maggiore. 4. Infine, e inevitabilmente, comincia a partecipare agli incontri che hanno come tema l’etica, i destini del mondo, eccetera.

Potremmo dire, con espressione volgare ma efficace, che diventa un «piacione». Questa è, in breve, la tesi di due ricercatori, Ulrike Malmerdier e Geoffrey Tate (1), che mostrano, nel caso degli Stati Uniti, i numeri delle proprie asserzioni, quelle da 1 a 3.
 
La ricerca mostra che, dopo che il massimo dirigente d’azienda è diventato famoso oltre la cerchia ristretta del proprio campo d’azione, i risultati dell’impresa da lui diretta (in media) peggiorano. Questo risultato potrebbe però non dipendere dalla vanità dei dirigenti ormai famosi come i divi dello spettacolo. Potrebbe, infatti, esserci un peggioramento dovuto a una regressione verso la media: è facile che i risultati eccezionali, quelli che hanno portato il dirigente alla gloria, siano seguiti da risultati peggiori. I due ricercatori allora analizzano le imprese i cui dirigenti sono candidati ai vari premi «il manager dell’anno». Seguono i risultati di quelle i cui dirigenti non hanno vinto il premio, poi di quelle i cui dirigenti il premio lo hanno vinto. Le seconde (in media) vanno peggio.
 
Insomma, la vanità sembra avere un peso negativo. Se diventa vanitoso un premio Nobel per la letteratura, sarà un problema per i famigliari. Diverso è il caso delle imprese, che hanno azionisti. Importa davvero la vanità dei dirigenti quando s’investe, oppure l’occuparsene è solo perdere tempo? Dipende, perché vi sono due modi di investire. Se si segue il primo approccio, la risposta è positiva; se si segue il secondo approccio, la risposta è negativa.
 
Vi sono coloro che credono nel potere dei grandi manager, di cui leggono avidamente le gesta, sia pubbliche sia private, come fossero dei divi. Pensano che la storia, così come il prezzo delle azioni, sia determinata dagli eroi, anzi che la storia e il prezzo delle azioni si estrinsechino nella volontà dei grandi uomini. Basti pensare, relativamente all’Italia, agli anni Ottanta, quando si affermava sui giornali stranieri che erano tornati «i principi rinascimentali», e alla fine degli anni Novanta, quando si sosteneva che erano apparsi dei «capitani coraggiosi». Chi segue questo approccio per investire non deve studiare ingobbito, gli basta l’osmosi con il leader.
 
Vi sono invece coloro che preferiscono noiosamente dedicarsi alle teorie e ai numeri. Ai loro occhi non esistono veri protagonisti: nessuno, infatti, ha inventato la moneta, il diritto, lo stato. Ecco due esempi.
 
Il pensiero economico (nel campo della finanza di matrice accademica) non trova un ruolo per il leader. Nel CAPM (Capital Asset Pricing Model) l’andamento dell’azione di un’impresa dipende quasi completamente dall’andamento dei mercati finanziari. Quel che non è spiegato dai movimenti dei mercati (dalla covarianza del portafoglio con la singola azione) è quanto si può attribuire alle caratteristiche dell’impresa, ma non sappiamo quanto attribuire al gran capo, vanitoso o no che sia (2).
 
Molti anni fa l'istituto di ricerca inglese Independent Strategy pubblicò uno studio che articolava il risultato finale delle imprese statunitensi. Il risultato finale, l’utile netto, era cresciuto moltissimo dagli inizi degli anni Ottanta: in parti quasi eguali, grazie alla maggior efficienza delle imprese, al minor onere da interessi, alle minori imposte. I manager, alla fine, sono responsabili solo dell’efficienza, mentre il minor onere da interessi dipende dalla politica monetaria e il minor carico d’imposte da quella fiscale. La grande salita dei prezzi delle azioni dal 1982 al 2000 ha avuto non uno, ma ben tre protagonisti: i dirigenti d’azienda, le politiche contrarie all’inflazione, quelle fiscali meno «stataliste».
 
Seguendo quest'approccio, uno avrebbe dovuto iniziare a investire proprio a partire dalle «macro decisioni» monetarie e fiscali prese in quegli anni; ma attenzione, allora i prezzi delle azioni in rapporto agli utili erano ai minimi, i rendimenti delle obbligazioni ai massimi, la fiscalità in riduzione. Oggi, invece, non abbiamo ancora i prezzi delle azioni in rapporto agli utili ai minimi, i rendimenti delle obbligazioni sono ai minimi e non ai massimi, la fiscalità non è in riduzione. Non è ancora giunto il momento degli eroi.
 

(1) http://www.anderson.ucla.edu/Documents/areas/fac/finance/super_ceo.pdf

 

(2) http://stumblingandmumbling.typepad.com/stumbling_and_mumbling/2005/03/what_do_bosses_.html
 
Si vedano anche:

http://www.centroeinaudi.it/commenti/le-donne-in-finanza.html

http://www.centroeinaudi.it/notizie/san-valentino-s-economics.html

http://www.centroeinaudi.it/commenti/bamboccione-s-economics.html