A seguito delle vicende nel campo dell'editoria (l'accordo fra La Stampa e Repubblica, i nuovi assetti del Corriere della Sera), si è scatenata la discussione sulla fine del “salotto buono” (il luogo dove una volta si definivano i grandi equilibri). Di seguito propongo due lavori sull'argomento: il primo sulla “Sovranità perduta” (1), il secondo sul ruolo di Mediobanca (2). In poche parole: abbiamo a che fare - e da molto tempo - con la fine del mondo dirigista racchiuso nella Nazione.
Una volta le infrastrutture - telefonia, acciaio, autostrade, voli arei, finanziamenti a lungo termine, ecc – erano offerte dallo stato attraverso l'IRI. Era il lascito “dirigista” del Ventennio, o, se si preferisce, della svolta statalista ai tempi della grande crisi degli anni Trenta. In breve, lo stato offriva i “beni base”, quelli che servano a produrre i beni finali. Un modo di vedere le cose è questo. I pisani aprivano gli alberghi e le pizzerie per i turisti, che arrivavano con Alitalia o con Autostrade. Altri dirigevano le proprie imprese che ricevevano l'acciaio dall'Italsider e si finanziavano presso l'IMI. Infine, tutti potevano telefonare grazie alla SIP (in origine Società Idroelettrica Piemontese). Fuori dal campo delle infrastrutture, perché l'IRI si era allargata, ecco che i ristoratori potevano comprare i pomodori dalla SME ed offrire i cioccolatini sempre della SME (in origine Società Meridionale Elettrica). Per non dire di Mediobanca, impresa controllata dalle Banche di Interesse Nazionale (BIN), controllate dall'IRI, ma di fatto autonoma. Il mercato primario – quello dove le imprese si approvvigionano di obbligazioni ed azioni – passava quasi tutto attraverso Mediobanca, che, in questo modo, governava il sistema privato. Mediobanca collocava i titoli presso il pubblico attraverso gli sportelli delle BIN.
Questo era il mondo della “Sovranità”. Un mondo molto statalizzato. In questo mondo già molto statalizzato fu costruito negli anni Sessanta e Settanta lo “stato sociale” - ossia la sanità, la scuola e le pensioni – con le entrate che erano inferiori alle uscite. Da qui il gran debito pubblico. Agli inizi degli anni Novanta si aveva un'economia statalizzata con un gran debito pubblico. Da allora fino ad oggi abbiamo assistito ai sussulti di questo mondo.
La Sovranità di cui si ha oggi tanta nostalgia era – largo circa – quanto appena raccontato. Un intreccio statalista in un mondo che è cresciuto molto fino agli anni Ottanta. Poi, ecco il grande mutamento, di cui non sono ancora chiare le dinamiche. Questo mondo è venuto giù, intanto che i suo protagonisti, a causa dell'età, sono passati a “miglior vita”. La nostalgia per il mondo degli “stati sovrani” del Dopoguerra va contro la “dinamica storica”. Da quando in Italia il cosiddetto “salotto buono” - ossia l'intreccio dei succitati “poteri forti” - è venuto velocemente meno, si è accesa una discussione sul controllo delle imprese. C'è chi vede nella fine del sistema del “salotto buono”, la liberazione delle energie imprenditoriali – chiamiamoli i “mercatisti” -, e c'è chi vede nella dispersione delle forze un pericolo, e dunque cerca nella Cassa Depositi e Prestiti (insieme alle Fondazioni) una nuova Mediobanca, o, forse, una nuova IRI – chiamiamoli i “dirigisti”.
La discussione non è astratta. In Italia avevamo un sistema che premiava nelle grandi imprese gli azionisti di riferimento e i sindacati, con gli azionisti di minoranza che venivano chiamati – con espressione crudele, ma realistica – il “parco buoi”. E' giunto il momento di premiare anche in Italia tutti gli azionisti – grandi e piccoli - come si pensa si faccia nei Paesi anglosassoni, ossia è arrivato il momento dello “share holder value”? L'espressione indica che gli interessi degli azionisti sono quelli che vanno perseguiti, perché sono gli unici di natura “generale”. Ossia, facendo gli interessi degli azionisti si fanno gli interessi di tutti – dipendenti, clienti, eccetera. Essa si contrappone al modello dello “stake holder value”, che sostiene, al contrario, che le imprese devono tenere conto di tutti gli interessi, perché questi non sono facilmente allineabili dietro a uno solo, quello degli azionisti.
Al centro del “mondo di ieri” si aveva Mediobanca, una costruzione complessa, che per essere compresa, va divisa in quattro parti.
Premessa storico-tecnica. Le banche dette “miste” - gli istituti che oltre al credito ordinario, erogavano anche quello a più lungo termine, ed, infine, avevano partecipazioni azionarie nelle imprese che erano loro clienti – ebbero un gran ruolo nel forzare l'industrializzazione dell'Europa Continentale nel XIX e gli inizi del XX secolo. Gli investimenti reali erano forzati ben oltre il livello che sarebbe stato possibile con il solo autofinanziamento e con i conferimenti di capitale dei soci.
Se una banca eroga ad un'impresa un credito a lungo termine che finanzia raccogliendo depositi a breve termine, ossia se ha dei crediti a scadenza lunga a fronte di impegni che sono richiamabili all'istante (i depositi a vista), può accadere che si trovi mal messa se i crediti a lunga scadenza non sono “di qualità”. Se i crediti non sono di qualità, e la banca è pure azionista del debitore, può accadere che essa sia tentata dall'intervenire sottoscrivendo degli aumenti del capitale.
Ma se la banca non ha non ha una copertura patrimoniale sufficiente di suo, si espone ancora di più. Dopo la Grande Guerra e durante la Grande Depressione questi problemi esplosero. Le imprese industriali andavano male e le banche erano esposte troppo. Fu così che in Italia le banche miste furono salvate.
Nel 1933 nacque l'Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) che comprò sia le banche sia le imprese di cui le banche erano azioniste. L'idea era che, dopo il salvataggio, tutto sarebbe ritornato nel settore privato. L'idea iniziale era perciò quella di uno statalismo pro tempore. Invece, arriva la Seconda Guerra, la privatizzazione è rimandata sine die, con l'economia che è di nuovo messa malissimo.
Nasce Mediobanca. Nel il 1946 è il turno di Mediobanca, la quale è, a ben guardare, lo spappolamento virtuoso della banca mista. Intanto, i crediti a scadenza lunga non sono più finanziati con depositi a vista, ma con i depositi a risparmio, oppure con obbligazioni, quindi si ha un credito a fronte di un debito di durata equivalente. Poi si possono collocare le azioni e le obbligazioni delle imprese clienti, per rafforzarle finanziariamente. Infine, si possono avere degli investimenti diretti in azioni, ma rigorosamente contenuti in rapporto al capitale di rischio.
Facendo così, non si hanno i difetti della banca mista, ma si hanno i vantaggi: gli investimenti reali possono essere forzati oltre l'autofinanziamento delle imprese ed i conferimenti dei soci. (quando si diceva con espressione pop che in Italia c'erano “i capitalisti senza capitali”, si intendeva questo).
Mediobanca nasce avendo come soci le Banche di Interesse Nazionale finite nell'IRI, le quali, oltre al capitale di rischio, mettono a disposizione di Mediobanca la loro rete di agenzie per la raccolta dei libretti a risparmio e delle obbligazioni. Mediobanca nasce perciò snella, perché non ha bisogno di una rete commerciale per la propria raccolta. E resta snella anche in sede del collocamento delle azioni e delle obbligazioni delle imprese, perché queste sono assorbite di nuovo dalle agenzie delle banche.
I noccioli duri. Dopo qualche anno Mediobanca diventa la protagonista della finanza italiana, si noti una finanza volta al finanziamento degli investimenti delle imprese. Con il tempo, cresce anche l'impegno come azionista. Siamo così giunti ai “noccioli duri”. Agli azionisti di riferimento, quando necessario, si alleava Mediobanca con quote proprie, allo scopo di dare stabilità e continuità. Nel caso delle Generali, la storia era diversa. La sua potenza di fuoco (la dimensione del suo attivo) rispetto alle imprese italiane era tale che, in caso di bisogno, essa potevano prendere la partecipazione necessaria. Non era necessario che la prendesse, bastava la minaccia. Le Generali erano come la “grande Berta”, era lì enorme e minacciosa anche se non sparava, da qui la sua importanza. Questo sistema è andato avanti fino agli anni Novanta. Ha tenuto in piedi quel che poteva, se si tiene conto della crisi che si manifesta in Italia a partire dagli anni Settanta.
Sociologia di una classe dirigente. Il sistema Mediobanca in tempi diversi è stato concepito e diretto soprattutto da intellettuali del Meridione: Beneduce, Menichella, Mattioli, Tino, Maccanico, Cuccia. Costoro sono emersi durante Fascismo, ma non erano fascisti, e il loro lascito è durato fino a poco tempo fa. Lo spappolamento virtuoso della banca mista ha perciò visto come protagonisti dei servitori dello stato che difendevano il perimetro dell'iniziativa privata.
Il sistema Mediobanca poco a poco si ridimensiona. Ciò avviene a partire dagli anni Novanta, quando le banche di credito ordinario possono tornare ad agire come banche miste. A quel punto – quando azioniste - si trovano in conflitto con Mediobanca in sede di collocamento dei titoli azionari e obbligazionari di società terze. Inoltre, il sistema dei noccioli duri si è rivelato costoso, perché impegna del capitale per ragioni di sistema, ma il capitale impegnato può essere poco redditizio. Cade così il quasi monopolio in sede di collocamento, così come cade il sistema dei noccioli duri per tenere coeso il sistema.
Alla fine - ossia oggi - si ha la Mediobanca, ma non si ha più il “sistema Mediobanca”. Al vecchio sistema che sosteneva e forzava gli investimenti delle grandi imprese non si è sostituito un nuovo sistema. Il “sistema Mediobanca” non era – come si suol dire – “liberista”, anzi, potremmo definirlo come esplicitamente “dirigista”. Guidava con la raccolta presso la rete delle banche di proprietà pubblica il sistema privato di maggior dimensione.
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