Fino agli anni Novanta l'Italia cresceva molto: a) La dinamica demografica era favorevole – gli allora numerosi giovani compravano i beni di cui avevano bisogno; b) il bilancio pubblico era espansivo, ossia le spese erano maggiori delle entrate; c) dal nulla era sorta un'intera regione economica – il Veneto Marche. Oggi non abbiamo alcuna delle succitate tre spinte.

Da circa venti anni l'Italia ha perciò smesso di crescere - anche molti altri paesi hanno smesso di crescere, ma l'Italia ha rallentato di più. Lo spegnimento della crescita in Italia è incominciato prima che si entrasse nell'euro (1), (2). I mercati finanziari italiani sono andati peggio degli altri con caratteristiche simili nel Secondo Dopoguerra per il combinato effetto – durato per tutti gli anni Settanta e Ottanta - di una dinamica salariale maggiore della produttività e di una moneta debole (3). Le imprese italiane sono ancora competitive nei settori tradizionali, come il tessile abbigliamento e i beni capitali, ma hanno perso molti colpi nei settori dove di norma si muovono le grandi imprese - chimica, farmaceutica, elettronica, auto, ecc (4). L'economia italiana è perciò più concentrata rispetto al passato nel campo delle piccole e delle medie imprese. Quelle che servono il mercato interno non vanno bene, quelle che esportano, invece, crescono. Le quali imprese piccole e medie hanno un debito di molto maggiore del capitale di rischio. Perciò quando il credito si restringe, esse hanno meno risorse per continuare.

Agli inizi degli anni Novanta l'Italia aveva un'economia molto statalizzata con un gran debito pubblico, con quest'ultimo che era figlio della costruzione veloce dello stato sociale (5) e del finanziamento del Meridione (6). Da allora fino ad oggi abbiamo assistito ai sussulti di questo mondo. Negli ultimi tempi si stanno imponendo le politiche di austerità – le politiche dette del “salva Italia”. Le quali hanno avuto successo, perché, alla fine, il bilancio pubblico è sotto controllo. Manca, invece, un chiaro disegno per la crescita – le politiche dette del “cresci Italia”. Nel prossimo futuro la crescita dovrebbe arrivare, ma, probabilmente, anche per effetto delle modeste riforme, sarà mediocre. Il governo Letta ha varato la manovra di stabilizzazione, in cui non si vedono delle grandi decisioni né sul fronte delle uscite né su quello delle entrate.

Un’interpretazione potrebbe essere quella che asserisce che il potere oggigiorno è sminuzzato al punto che nessuno riesce a prendere il sopravvento. In Italia il “partito della spesa” ha una forza di poco maggiore di quella a favore del “minor carico fiscale”. Dall'ingresso dell'euro ad oggi le spese primarie dello stato – quelle che escludono il pagamento degli interessi – sono, infatti, salite dal 40% del PIL a più del 45%, mentre le entrate fiscali, nello stesso periodo, sono salite di meno (7).

Il ragionamento (8) di quelli che non vedono che cosa ci sia “in sostanza” da toccare sul lato delle spese, e anzi che si possono alzare è questo: a) In Italia si ha un'alta spesa per interessi, circa il 5% del PIL. Non possiamo fare nulla per ridurla, essa, infatti, si forma sui mercati finanziari che fanno le comparazioni fra debiti pubblici. b) e abbiamo un'alta spesa per pensioni. Quel che si poteva fare per ridurla è stato fatto. c) L'Italia perciò, se si esclude la spesa per interessi e per pensioni, che sono delle “esogene”, è il Paese che ha la minor spesa pubblica in rapporto al PIL dell'Unione Europea (9). Per quanto riguarda tutte le altre voci, possiamo perciò spendere come gli altri non in termini assoluti, ma in rapporto al nostro reddito, ossia al nostro PIL. Ciò che può avvenire attraverso l'incremento del debito e/o della pressione fiscale. Si tratta di negoziare un tetto per il deficit più elastico, contando che la maggior crescita porti sotto controllo nel tempo il debito (10).

Insomma, chi fa parte del “partito della spesa” segue queste argomentazioni. Chi, invece, vuole ridurre le imposte - e sa questo può avvenire solo a condizione di ridurre le spese - non parte dalla media dei paesi dell'euro area ma dal più efficiente fra quelli di grande dimensione – la Germania. Voce per voce, si vede che si può spendere meno (11). L'idea di fondo è che esiste un livello di spesa oltre la quale non si ha un ritorno proporzionale nella qualità dei servizi e nei risultati. Per esempio, la salute. La spesa sanitaria sale velocemente, ma la speranza di vita aumenta lentamente. Altro esempio, la scuola. Aumenta la spesa, ma è da vedere se, da un certo punto in poi, cresce la qualità del capitale umano o solo il monte salari degli insegnanti (12).

Dov'è, alla fine, la differenza fra il “partito della spesa” e quello della “riduzione delle imposte”. Il primo vuole lo “stato sociale”, mentre il secondo, crudele, vuole tornare allo “stato minimo”? No, la differenza maggiore, è che il primo, a differenza del secondo, non vede “i risultati marginali decrescenti” della spesa pubblica. Infatti, parla solo di “livelli” e mai di “efficienza”. La differenza minore fra i due “partiti” è nell'importanza che si vuol dare alle politiche dell'”offerta”. Il primo pensa che sia la domanda a trainare l'economia (13), il secondo pensa che una miglior offerta possa aiutare la crescita efficiente delle domanda.

Il tutto riscritto con linguaggio diretto: non basta dire che spendiamo meno degli altri paesi europei nel campo dell'istruzione e dunque che per avere una migliore istruzione si deve alzare la spesa. Si deve vedere come la spesa è composta: se va tutta agli insegnanti e non ai laboratori e all'edilizia scolastica. Lo stesso vale per la spesa sanitaria, che è a livello europeo, ma con salti di qualità e di spesa elevati fra regioni. Insomma, la spesa pubblica va ridotta se inefficiente, e persino aumentata quando può produrre efficienza. Il tutto messo in forma di slogan diventa: lo “stato sociale” deve essere efficiente e i mercati dei prodotti e del lavoro debbono diventare meno ingessati (14).

(1) http://noisefromamerika.org/articolo/euro-domanda-produttivita-viaggio-nel-mito-parte-1

(2) http://noisefromamerika.org/articolo/euro-domanda-produttivita-viaggio-nel-mito-parte-2

(3) http://www.centroeinaudi.it/the-italian-job/latest-articles/3444-still-in-the-long-tunnel.html

(4) Mario Deaglio (a cura di), XVII Rapporto sull'economia globale e l'Italia, pagina 160

(5) http://www.linkiesta.it/debito-pubblico-italiano

(6) http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/commenti/1700-debito-pubblico-e-meridione.html

(7) http://noisefromamerika.org/articolo/fassineide-trilogia-parte-seconda

(8) Per alcuni la spesa pubblica ha sostituito il salario come “variabile indipendente”. Quest'ultima è un'espressione degli anni Settanta che evoca l'idea che ci sia una variabile che si autodetermina, disponendo all'equilibrio tutte le altre. Quest'idea trae origine da una lettura distorta dagli scritti di Piero Sraffa (8), perché l'economista sostiene che, in prima approssimazione, ossia quando non si ha un “surplus” da spartire, il salario è indipendente perché si deve avere un tenore di vita minimo - un tenore di “sussistenza”. Quando, al contrario, si ha un “surplus” da spartire, ecco che il salario può fluttuare, così come i profitti, e dunque non è più “indipendente”. Giorgio Lunghini, Conflitto, Crisi, Incertezza, versione Kindle, posizione 1303.

(9) http://www.lavoce.info/bersani-e-la-spesa-pubblica-al-netto-delle-pensioni/

(10) La spesa pubblica in deficit funziona sotto certe condizioni. Per sapere quali, chiediamo lumi a due economisti keynesiani (De Long e Summers, Fiscal Policy in a Depressed Economy, marzo 2012, pagina 9). Secondo loro, l'espansione dell'economia (purché sia depressa, ossia con una sotto occupazione degli impianti e della manodopera) attraverso un maggior deficit pubblico senza per questo avere un aumento del debito pubblico (in percentuale del PIL) è possibile. Ciò avviene se il deficit pubblico alimenta la domanda aggregata per una somma maggiore della spesa iniziale in deficit (ossia, se il moltiplicatore della spesa è significativo), a condizione che il costo del debito sia inferiore al tasso di crescita dell'economia. Si assume, infine, nel ragionamento che la politica monetaria sia fuori gioco, ossia che i tassi stiano per qualche tempo intorno allo zero. In Italia il costo del debito è pari - sulla media delle scadenze delle obbligazioni dai tre mesi ai trenta anni - al 4% circa. Poniamo che resti invariato a fronte della ripresa della spesa pubblica in deficit. La crescita economica (reale e nominale) che riduca il peso (percentuale) del debito pubblico che si dovrebbe avere deve perciò essere superiore al 4%. La crescita economica si compone di un tasso di inflazione (precisamente il deflatore del PIL) che è pari al 2% (il valore corrente) e di una crescita reale che deve essere pari al 3% (la crescita negli ultimi anni è stata pari alla metà). Il 5% è perciò un numero molto alto per l'Italia. Negli Stati Uniti, invece, il costo del debito è decisamente inferiore al nostro, e una crescita elevata di un'economia così elastica è sempre possibile, ragion per cui De Long e Summers sostengono che negli Stati Uniti si può avere una spesa pubblica in maggior deficit senza un aumento (in percentuale del PIL) del debito.

(11) http://www.brunoleonimedia.it/public/Papers/IBL-SR-Spesa_Pubblica.pdf

(12) Mario Deaglio (a cura di), XVI Rapporto sull'economia globale e l'Italia, da pagina 179

(13) La domanda è resa stabilile dall'intervento pubblico che, alzando il livello delle spese per consumi e investimenti, riduce l'incertezza sulla consistenza della domanda futura – incertezza che si ha quando si prendono le decisioni di investimento: http://www.arcoiris.tv/scheda/it/12560/

(14) Fa parte di quello che gli inglesi chiamano “common sense” l'affermare che lo sviluppo economico – o, se si preferisce, la schumpeteriana “distruzione creatrice” - sia tanto maggiore quanto minori sono i vincoli sia nel mercato dei prodotti sia in quello del lavoro. Se non vi sono vincoli, allora le innovazioni si diffondono più facilmente, perché si hanno meno ostacoli nella diffusione dei prodotti, che, a loro volta, possono materializzarsi solo se la forza lavoro si sposta - senza troppe frizioni - dai vecchi ai nuovi settori. (Per una definizione della regolamentazione dei mercati dei prodotti e della tutela dell'occupazione si veda il grafico III.7).

Bene, misuriamo questa affermazione – il primo blocco di grafici è il III.5. Il grafico a sinistra mostra sull'asse orizzontale il grado di regolamentazione dei prodotti – man mano che ci si sposta a destra la regolamentazione diventa più stringente - e su quello verticale la produttività del lavoro dei diversi Paesi. Il grafico al centro - mostra sempre sull'asse orizzontale il grado di regolamentazione dei prodotti e su quello verticale il tasso di occupazione dei diversi Paesi. Ne deriva una retta di regressione che si muove dall'alto a sinistra verso il basso a destra, ossia si evince che tanto più il mercato dei prodotti è regolamentato tanto minore è la produttività e l'occupazione. Il terzo grafico collega la regolamentazione del mercato del lavoro (e non dei prodotti) al tasso di occupazione. Anche qui si evince che il tasso di occupazione è tanto maggiore tanto minore è la regolamentazione del mercato del lavoro.