Il Kosovo non è più Serbia, ma potrebbe un giorno diventare parte dell’Albania? I proclami su un’unione di tutti gli Albanesi sotto un unico stato si sprecano, alimentando paranoie sulla revisione dei confini nella regione. Ma al di là di alcune passerelle nazionalistiche, i rapporti tra i due Paesi – soprattutto quelli economici – non sembrano decollare.
Sono circa centocinque chilometri di autostrada a quattro corsie. Collegano la capitale del Kosovo, Pristina, al confine albanese, per garantire una connessione diretta a Tirana e, attraverso di essa, al porto di Durazzo. Costati ben un miliardo di euro (secondo l’analisi di Andrea Lorenzo Capussela, ex direttore economico dell’ufficio locale dell’ICO): un quinto del Prodotto Interno Lordo kosovaro nel 2010. Un appalto assegnato attraverso procedimenti molto dubbi a un consorzio turco-americano (la Bechtel-Enka), per costruire “l’autostrada patriottica”, un progetto faraonico che, al di là delle evidenti ragioni d’immagine, non ha probabilmente altri motivi di esistere.
Annunciata in pompa magna al momento della sua costruzione, l’autostrada che porta il nome del “padre della patria” kosovara, Ibrahim Rugova, e che è risultata la più costosa della regione si sta rivelando infatti la proverbiale cattedrale nel deserto. I flussi commerciali e di persone tra i due Paesi non sono ancora tali da motivare un tale dispendio di denaro.
Quella che, secondo l’opinione di più dell’80% della popolazione, sarebbe “la madrepatria” alla quale ricongiungersi un domani conta, in effetti, relativamente poco nell’economia kosovara: l’Albania risulta, a febbraio 2013, il secondo importatore di prodotti kosovari, dopo l’Italia (il nostro Paese costituisce il primo mercato estero per il Kosovo, con una quota del 27% del totale). Ma per quanto riguarda le importazioni dall’Albania, essa ha un peso molto ridotto rispetto a quelli di Germania, Italia, Grecia o Serbia.
Così l’autostrada, costata non poco alle tasche dei cittadini della Repubblica, resta per lo più vuota, tributo all’idea della “grande Albania”, l’ideale forgiato per la prima volta con la Lega di Prizren nel 1878, e realizzato soltanto con l’occupazione italiana dei Balcani durante la seconda guerra mondiale. Ma al di là delle dichiarazioni d’intenti e delle bandiere albanesi che sventolano a Pristina, ha davvero qualche fondamento parlare di un Kosovo “destinato a finire” sotto l’influenza di Tirana?
Nella storia recente della più giovane repubblica d’Europa, molti segnali hanno contribuito a far pensare che tra le due capitali si stessero instaurando dei rapporti che esulassero dalla reciproca vicinanza culturale e storica. Come la proposta del premier albanese, Sali Berisha, di dare un passaporto sulla base dell’appartenenza etnica agli albanesi fuori dai confini nazionali. O come la decisione, presa dall’autorità per le telecomunicazioni kosovara, di rinunciare al prefisso serbo per adottare quello dell’Albania. Ancora, Albania e Kosovo avevano deciso di unire i propri consolati all’estero e di avere quindi una sola amministrazione per i due Paesi.
Sulla base di queste sinergie c’è stato addirittura chi, come l’economista austriaco Gunter Fehlinger, aveva auspicato la costruzione di una macro-regione balcanica, a immagine di quanto avvenuto con il Benelux in Europa, tra Albania, Kosovo, Macedonia e Montenegro. Un’unione che però era parsa a molti come una specie di maldestro tentativo di riunire le minoranze albanesi della regione attorno a un’unica organizzazione internazionale.
L’Albania aveva cercato di ricoprire un ruolo da protagonista anche nel tentativo di ridurre la dipendenza energetica del Kosovo dalla Serbia. Tirana aveva lanciato il progetto per una linea transfrontaliera ad alta tensione che avrebbe dovuto trasportare elettricità preziosa tra Albania e Kosovo. Ma il piano, appaltato alla ditta croata “Dalekovod” e finanziato con 75 milioni di euro da una banca d’investimento tedesca, la KFW, non è mai decollato, principalmente sempre a causa di una gestione poco trasparente della gara di appalto.
A eccezione di queste manovre, la presenza albanese in Kosovo langue. Nella sostanza il progressivo riavvicinamento tra Pristina e Tirana tenta la propria strada attraverso iniziative simboliche - che però hanno fatto temere un revival nazionalistico e irredentista, complice il rinnovato afflato patriottico albanese sull’onda del centenario dell’indipendenza (celebrato nel 2012). Molto fumo, quindi, ma poco arrosto.
Non più Serbia, né Albania, per adesso il Kosovo resta un’entità politica ed economica ambigua. Il Paese dovrà trovare urgentemente il modo di reggersi sulle proprie gambe. Da questo punto di vista, il recente accordo, concluso con Belgrado attraverso i buoni uffici di Bruxelles, potrebbe essere un ottimo segnale sotto un duplice aspetto: per la Serbia, significa cominciare ad accettare razionalmente l’inizio della soluzione per una “anomalia” che intralcerebbe il percorso verso l’ingresso in Unione Europea. Per il Kosovo, finalmente pone le basi della normalizzazione. Una volta regolati i rapporti con Belgrado, Pristina potrà finalmente concentrare gli sforzi per migliorare le condizioni di vita dei propri cittadini.
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