Immaginiamo un'economia in piena occupazione con due settori: uno produce candele, l'altro lampadine. Il primo è un settore maturo, il secondo è in crescita. Come funziona lo “sviluppo”? I produttori di lampadine debbono attrarre i lavoratori dal settore delle candele, e lo fanno offrendo salari maggiori di quelli vigenti nel settore delle candele. I salari nel primo settore salgono. Dopo qualche tempo smettono di salire, perché l'offerta di lavoro è aumentata. Intanto che accade questo, il settore delle candele - per tenere i lavoratori - alza i loro salari. Alla fine, i salari sono più alti ovunque.

In un mondo ideale i salari sono flessibili, i contratti di lavoro incentivano l'ingresso e l'uscita, e i lavoratori sono protetti da un assegno universale di disoccupazione. Nel nostro esempio, la produzione di candele viene in gran parte sostituita da quella di lampadine, e le candele, ormai prodotte in minor misura, diventano non più un mezzo per illuminare, ma un qualche cosa che rende piacevoli le feste e le cene romantiche. Si noti che il nostro esempio mostra un mondo ideale dove la legislazione tutela i lavoratori ma non il lavoro nei settori improduttivi. Si noti, infine, che i salari possono salire in maniera “sana” se la produttività cresce, e questa cresce di più dove si ha innovazione.

Che cosa è finora accaduto in Italia dove si è cercato con le riforme del mercato del lavoro di combinare la flessibilità con la tutela? Finora, il lavoro non è uscito dai settori meno produttivi per andare in quelli più produttivi. Ossia, sono mancati gli incentivi allo spostamento (e quindi all'innovazione). Su questo punto - fondamentale per lo sviluppo del Bel Paese - Paolo Manasse e Thomas Manfredi svolgono un'importante ricerca: “Salari, Produttività e Impiego in Italia: la Fotografia di Un Mercato Distorto”. Ecco le conclusioni (1):

“I dati stilizzati e l’analisi econometrica suggeriscono che 1) in Italia, a differenza di quanto avviene in Germania, i salari riflettono pochissimo la produttività dei settori nel breve periodo, mentre la loro tendenza di lungo periodo è di aumentare di più dove la produttività cresce di meno; 2) i salari relativi rispondono piuttosto ai prezzi relativi; e 3) gli occupati tendono a spostarsi verso i settori meno produttivi. E’ chiaro che in queste circostanze una maggiore flessibilità del lavoro rischia di produrre effetti perversi, se l’occupazione si sposta verso settori maggiormente protetti anziché verso quelli più produttivi. Questo fallimento nella funzione allocativa del mercato del lavoro danneggia la crescita della produttività e chiama in causa il modello di contrattazione dei salari. (…) Nella scala delle priorità delle riforme del lavoro si dovrebbe dunque ripristinare innanzitutto il legame tra salari, produttività a livello di impresa e lavoratore, e limitare gli aspetti collettivi al ruolo di tutela di standard minimi. Introdurre nuovi elementi di flessibilità in un mercato del lavoro distorto avrebbe effetti negativi o nulli su produttività, salari e occupazione“.

Vera l'analisi, il problema della modesta crescita italiana non si risolverebbe - come pensano alcuni - con il ritorno della Lira, ma con un diverso dispiegamento dei contratti di lavoro. I quali finora hanno spinto (e qui ben han fatto) alla flessibilità ed alla tutela, ma non hanno (e qui sta il vulnus) ancora incentivato lo spostamento dai settori meno produttivi.

 

(1) http://www.linkiesta.it/mercato-lavoro-incentivi-flessibilita

Vedi anche:

http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/asset-allocation/3602-il-bel-paese-ieri-e-domani.html

http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/asset-allocation/3758-il-bel-paese-che-cambia.html