Questo testo è la traccia di una conferenza che si terrà a Milano. Sommario: agli inizi degli anni Novanta l'Italia aveva un'economia molto statalizzata (§1) con un gran debito pubblico, con quest'ultimo che era figlio della costruzione veloce dello stato sociale (§2) e del finanziamento del Meridione (§3). Da allora fino ad oggi abbiamo assistito ai sussulti di questo mondo. Negli ultimi tempi si stanno imponendo le politiche di austerità (§4). Manca, invece, un chiaro disegno per la crescita (§5), che potrebbe emergere con il nuovo equilibrio politico (§6). L'excursus sui mercati finanziari italiani sostiene che sono andati peggio degli altri nel Secondo Dopoguerra per il combinato effetto di una dinamica salariale maggiore della produttività e di una moneta debole (§7). Infine, le conclusioni (§8).
1- Un'economia molto statalizzata
Una volta le infrastrutture e i beni base - telefonia, acciaio, autostrade, voli aerei, finanziamenti a lungo termine, ecc – erano offerte dallo stato attraverso l'IRI (l'Istituto per la Ricostruzione Industriale, fondato nel 1932 e liquidato nel 2002). Era il lascito “dirigista” del Fascismo, o, se si preferisce, della svolta statalista non solo italiana ai tempi della grande crisi degli anni Trenta. In breve, lo stato offriva i “beni base”, quelli che servono a produrre i beni finali.
Un modo di vedere le cose è questo. I pisani aprivano gli alberghi e le pizzerie per i turisti, che arrivavano per ammirare la Torre grazie all'Alitalia e alla società Autostrade. Altri dirigevano le proprie imprese che ricevevano l'acciaio dall'Italsider (passata all'IRI negli anni Trenta) e si finanziavano presso l'IMI (un Ente pubblico, l'Istituto Immobiliare Italiano, fondato nel 1931). Infine, tutti potevano telefonare grazie alla SIP (anch'essa una società dell'IRI, in origine Società Idroelettrica Piemontese, che, nel 1964, passò alla telefonia grazie ai capitali ricevuti con la nazionalizzazione dell'energia elettrica del 1963, che diede origine all'ENEL, Ente Nazionale per l'Energia Elettrica). Fuori dal campo delle infrastrutture, perché l'IRI si era allargata, ecco che i ristoratori potevano comprare i pomodori dalla SME ed offrire i cioccolatini sempre della SME (in origine Società Meridionale Elettrica, che passò dall'elettricità, dove operava fino alla nazionalizzazione del settore, agli investimenti in campo alimentare).
Per non dire di Mediobanca, impresa fondata nel 1946, e controllata dalle Banche di Interesse Nazionale (BIN), a loro volta controllate dall'IRI fin dalla fondazione, ma di fatto autonoma. Il mercato primario – quello dove le imprese si approvvigionano di obbligazioni ed azioni – passava quasi tutto attraverso Mediobanca, che, in questo modo, governava il sistema privato. Mediobanca collocava i titoli presso il pubblico attraverso gli sportelli delle BIN. Nel sistema le Assicurazioni Generali, la più grande delle imprese assicuratrici, dovevano essere “tenute fuori”. La potenza di fuoco di Generali era, infatti, tale che avrebbero potuto alterare gli equilibri comprando partecipazioni. Le Generali erano una specie di “grande Berta” che non doveva mai sparare.
Questo era il mondo della “Sovranità”. Un mondo molto statalizzato. In questo mondo già molto statalizzato fu costruito negli anni Sessanta e Settanta lo “stato sociale” - ossia la sanità, la scuola e le pensioni – con le entrate statali che erano inferiori alle uscite. Da qui il gran debito pubblico. Agli inizi degli anni Novanta l'Italia aveva un'economia statalizzata con un gran debito pubblico. Da allora fino ad oggi abbiamo assistito ai sussulti di questo mondo.
Nel caso specifico di Telecom, abbiamo avuto un'impresa con dei flussi di cassa enormi, che erano in grado, anche non riducendo troppo gli investimenti, di reggere una mole enorme di debito. Telecom è stata così scalata due volte accendendo del debito “a monte”, che veniva poi scaricato “a valle”. La sua deriva non è perciò figlia del destino “cinico e baro”.
La Sovranità di cui si ha oggi tanta nostalgia era – largo circa – quanto appena raccontato. Un intreccio statalista in un mondo che è cresciuto molto fino agli anni Ottanta. Poi, ecco il grande mutamento, di cui non sono ancora chiare le dinamiche. Questo mondo è venuto giù, intanto che i suo protagonisti, a causa dell'età, sono passati a “miglior vita”. Attenzione, però. Anche la Gran Bretagna ha perso sovranità, gli “stranieri” hanno comprato quasi tutti i suoi grandi marchi. La nostalgia per il mondo degli “stati sovrani” del Dopoguerra va contro la “dinamica storica”. Quel che serve oggi in Italia è lo snellimento della pubblica amministrazione e la riduzione del cuneo fiscale, non il tenersi una compagnia di bandiera.
Da quando in Italia il cosiddetto “salotto buono” - il nome che era stato dato all'intreccio dei succitati “poteri forti” - è venuto velocemente meno, si è accesa una discussione sul controllo delle imprese. C'è chi vede nella fine del sistema del “salotto buono”, la liberazione delle energie imprenditoriali – chiamiamoli i “mercatisti” -, e c'è chi vede nella dispersione delle forze un pericolo, e dunque cerca nella Cassa Depositi e Prestiti (insieme alle Fondazioni) una nuova Mediobanca, o, forse, addirittura una nuova IRI – chiamiamoli i “dirigisti”.
La discussione non è astratta. In Italia avevamo un sistema che premiava nelle grandi imprese gli azionisti di riferimento e i sindacati, con gli azionisti di minoranza che venivano chiamati – con espressione crudele, ma realistica – il “parco buoi”. E' giunto il momento di premiare anche in Italia tutti gli azionisti – grandi e piccoli - come si pensa si faccia nei Paesi anglosassoni, ossia è arrivato il momento dello “share holder value”? L'espressione indica che gli interessi degli azionisti sono quelli che vanno perseguiti, perché sono gli unici di natura “generale”. Ossia, facendo gli interessi degli azionisti, si fanno gli interessi di tutti – dipendenti, clienti, eccetera. Essa si contrappone al modello dello “stake holder value”, che sostiene, al contrario, che le imprese devono tenere conto di tutti gli interessi, perché questi non sono facilmente allineabili dietro a uno solo, quello degli azionisti.
Insomma, si sta chiarendo il bivio, al di là delle vicende politiche di breve termine. L'Italia crescerà meglio se più “mercatista”, oppure – per crescere – avrà ancora bisogno di un qualche “dirigismo”? Vale la pena ricordare che, se si somma la capitalizzazione delle imprese pubbliche - come l'ENI (in origine, Ente Nazionale Idrocarburi, fondato nel 1953) a quella delle imprese ex pubbliche - come la gran parte delle banche, oltre all'ENEL, si arriva a circa la metà della capitalizzazione della borsa italiana. Ossia, la borsa italiana è (per metà) figlia di quanto accaduto nel lontano passato “dirigista”.
2- La costruzione veloce dello stato sociale
Il debito pubblico, che si manifesta come le obbligazioni emesse dal Tesoro, si forma perché le spese dello Stato sono maggiori delle sue entrate – il deficit pubblico. La differenza, se non è finanziata con l’emissione di moneta, è coperta con l’emissione di obbligazioni. Si deve perciò andare alla ricerca della fonte: come si è formato il deficit. Più o meno tutti i paesi sviluppati hanno visto crescere smisuratamente la spesa pubblica a partire dagli anni Sessanta. Quelli che hanno registrato una crescita delle imposte non troppo distante dalla crescita della spesa, hanno oggi dei debiti contenuti. Altri, invece, hanno speso velocemente, con le imposte che crescevano lentamente. Da qui i grossi deficit, che, cumulati, hanno prodotto un gran debito.
La spesa pubblica si divide in spesa pubblica «per lo Stato minimo» e in quella «per lo Stato sociale». La prima finanzia la polizia, i magistrati, i soldati; ossia l’ordine, la giustizia, la difesa. La seconda finanzia i medici, gli infermieri, le medicine, gli insegnanti, eccetera; ossia l’istruzione e la salute. Le pensioni sono ambigue, perché sono pagate – attraverso un apposito organismo – a chi è in pensione da chi lavora, quindi sono un trasferimento, non proprio una spesa.
Premesso ciò, la spesa per lo Stato minimo è rimasta all’incirca la stessa nel secondo dopoguerra, mentre è esplosa quella per lo Stato sociale. Ed è qui il punto. Quest’esplosione è avvenuta in tutti i paesi europei. Negli Stati Uniti un po’ meno, ma non tanto meno, se si fanno dei conti sofisticati. Dunque non è un fenomeno solo italiano. O meglio, l’Italia spende più di alcuni altri paesi, ma non «troppo di più». Il punto è che ha incassato di meno per troppo tempo. (I conti comparati sulla spesa pubblica per lo Stato minimo e per quello sociale vanno fatti escludendo la spesa per interessi sul debito, che è il frutto del cumularsi dei deficit nel corso del tempo e non della spesa corrente.)
Abbiamo così a che fare con un fenomeno storico. E, se abbiamo a che fare con un fenomeno storico, allora la crescita del debito non è attribuibile – se non in minima parte – a un bravo o cattivo presidente del Consiglio dei ministri. Il protagonista è il «Processo» e non l’«Eroe».
In conclusione, l’Italia ha speso più di quanto incassasse per troppo tempo, e si trova oggi ad avere un gran debito pubblico. Fino a quando ha speso più di quanto incassasse? Fino a prima dell’ultimo governo Andreotti. Il conto è fatto guardando la spesa pubblica meno le entrate prima del pagamento degli interessi (il saldo primario). Intorno al 1990 il bilancio dello Stato va in pareggio prima del pagamento degli interessi. In altre parole, non genera un nuovo deficit prima di pagare gli interessi sul cumulato dei deficit prodotti nel corso della storia (il debito).
Da allora il saldo primario è stato o in avanzo o in leggero disavanzo. Il deficit è stato il figlio del pagamento degli interessi sul debito cumulato. I deficit solo finanziari hanno però prodotto altro debito. La crescita economica (la variazione del PIL) non è mai stata troppo robusta, e perciò il rapporto debito su Pil o è rimasto stabile, o è appena sceso, o è cresciuto. Ultimamente il rapporto è cresciuto molto, perché il PIL (il denominatore) è caduto molto nel biennio 2008-2009 e non si è ancora ripreso.
3- Il finanziamento del Meridione
Il debito pubblico non è “dato”, esso è “dato” quando è osservato in un certo momento, ma per essere “dato” deve essere “sorto”. Ebbene, quando e dove è sorto? E, infine, perché? Il debito pubblico italiano era assai modesta cosa agli inizi degli anni Sessanta, circa il 30% del PIL; poi è diventato via via maggiore, fino a toccare il 120% del PIL agli inizi degli anni Novanta. Da allora è sceso e poi tornato dov'era.
Quando e dove è sorto. Il debito si forma perché le uscite dello stato sono maggiori delle sue entrate. La differenza è il deficit, che può essere finanziato “stampando moneta”, vendendo obbligazioni, oppure con una combinazione delle due possibilità. (Fino al 1980 si aveva una combinazione delle due possibilità, poi alla Banca d'Italia fu proibito di comprare le obbligazioni che non erano comprate alle aste. Se la Banca d'Italia comprava le obbligazioni, iniettava liquidità nel sistema, ossia “creava moneta”. Se il fabbisogno è coperto solo dalle obbligazioni, il Tesoro inietta liquidità nel sistema attraverso la spesa pubblica in deficit, ma ne toglie altrettanta, perché la riceve dai sottoscrittori delle sue obbligazioni. La spesa non in deficit non inietta nuova liquidità, perché è pagata dalla liquidità che arriva alle casse del Tesoro con le imposte. Dunque con la sola emissione di obbligazioni, il deficit pubblico non “crea moneta”).
Le uscite e le entrate (e quindi, se si ha differenza, il deficit e quindi il debito) dello stato possono essere osservate centralmente, ossia come bilancio consolidato, oppure osservate spaccandole per provenienza. E qui arriva il bello. I calcoli sono complessi e laboriosi, ma per fortuna, c'è chi li ha fatti.
L'Italia è suddivisa per macro regioni. Per ognuna di queste si calcola il deficit, e quindi la fonte che alimenta il debito. (Punto contabile: i conti sono fatti come saldo fra le uscite ex interessi e le entrate, ossia non si calcola il pagamento degli interessi sul debito, perché non si può sapere a chi appartengono su base regionale i titoli di stato. Tecnicamente è calcolato solo il saldo primario).
Dal 1960 il Nord Ovest ha avuto quasi sempre (tranne nei primi anni novanta) una spesa pubblica inferiore alle entrate tributarie, ossia il Nord Ovest non ha prodotto debito, anzi ha contribuito a ridurlo. Dal 1960 fino alla fine degli anni Novanta il Nord Est e il Centro hanno avuto delle uscite maggiori delle entrate, ossia hanno prodotto debito. Da allora, la situazione si è capovolta: il Nord Est è ora come il Nord Ovest, ossia riceve meno spesa delle imposte che paga, mentre il Centro è in pareggio. A metà degli anni ottanta il Meridione aveva un deficit pubblico che arrivava al 35% del suo PIL. Poi si è ridotto con violenza, restando comunque enorme, e da circa un decennio si ha un deficit pari al 15% del PIL.
Il debito pubblico si è formato in buona parte Meridione, questa è la conclusione. Come mai?
Alla ricerca delle cause. La prima che viene in mente è che le regioni ricche trasferiscono a quelle povere una parte del proprio reddito, se si ha un regime di imposte progressive. Ecco che le regioni ricche vivono al di sotto delle proprie possibilità, le povere al di sopra. (In un'economia chiusa le regioni ricche però vendono i propri prodotti a quelle povere, e recuperano il reddito trasferito). E' una buona spiegazione? Sì e no, secondo i conti dello studio citato, e la prova sarebbe questa. I trasferimenti dovrebbero ridursi quanto si chiude il divario di reddito, e aumentare quando aumenta. Relazione di cui non si ha una traccia statistica significativa. Se la prima spiegazione non è convincente, potrebbero essere cercate delle altre? Una potrebbe essere la maggiore evasione fiscale. L'evasione è quasi pari alle entrate tributarie nel Meridione, mentre in Lombardia l'evasione è inferiore a quella tedesca. Infine, ma non so come sia stato fatto il calcolo nello studio citato, quando aumenta (diminuisce) nel Governo la presenza di esponenti politici del Meridione aumenta (diminuisce) il deficit. Si ha qui il famoso “voto di scambio”.
In conclusione, la parte del paese che ha una base produttiva molto debole che non genera imposte robuste, con le modeste imposte che si hanno nelle economie povere pesantemente evase, e con una presenza significativa del voto di scambio, ha accumulato negli ultimi cinquanta anni dei grandi deficit (le spesa pubblica è stata sempre maggiore delle entrate), che hanno alimentato una buona parte del debito pubblico nazionale. Ultimamente il deficit del Meridione resta molto elevato, ma è ben lontano dagli abissi degli anni Settanta. Come che sia, in passato ha contribuito ad alimentare il debito che è dello Stato. Uno potrebbe pensare che il Federalismo (o la Secessione) sia la soluzione. Il Nord avrebbe un bilancio pubblico in forte avanzo e potrebbe discettare – novello finlandese - del debito altrui. Non è così semplice, anzi non è conveniente, se si calcolano i costi che si avrebbero in Meridione e i benefici che si avrebbero dalle altre parti. Qui trovate un'analisi articolata del punto. In breve, a parte la devastazione che si avrebbe in Meridione per la strizzatura del trasferimenti, si dovrebbe affrontare il problema della attribuzione del debito pubblico in essere.
4- Il Fiscal Compact
Il Fiscal Compact è l'idea che i deficit pubblici debbano essere nulli anche in assenza di ripresa economica. I deficit pubblici nulli, infatti, non alimentano il debito che perciò smette di crescere. Smettendo il debito di crescere, ecco che prima o poi torna la fiducia e l'economia alla fine si riprende. Come è che si manifesta la “fiducia”? Se il debito pubblico cresce, gli agenti economici pensano che in futuro pagheranno più imposte per tenerlo sotto controllo, perciò riducono i propri consumi oggi per tener conto delle maggiori imposte di domani. Se il debito pubblico, invece, non cresce, gli agenti economici pensano che in futuro pagheranno meno imposte per tenerlo sotto controllo, e perciò aumentano i propri consumi oggi per tener conto delle minori imposte di domani. (La fiducia, a sua volta, emerge in base a due comportamenti: si assume che gli agenti tendono a spalmare – a rendere costanti - nel tempo i consumi, e si assume che facciano dei conti minuziosi sulle imposte di domani).
E' perciò possibile che nel prossimo futuro - in seguito alle succitate novità politiche - possa prevalere l'idea opposta, ossia che è meglio avere dei deficit pubblici sobri, il Compact Growth. L'idea è che la compressione della domanda in deficit di origine pubblica - in assenza di un livello adeguato di consumi e investimenti del settore privato – possa spingere l'economia nella trappola della mancanza di crescita. Non si sa con chiarezza se un debito pubblico cospicuo sia o meno un freno alla crescita. Potrebbe, infatti, essere vero il contrario, ossia che è la modesta crescita ad alimentare il debito. E questo potrebbe essere il cavallo di battaglia di quelli che vogliono ridiscutere il Fiscal Compact.
La gran spesa pubblica in deficit per sé non porta automaticamente ad una grande crescita, altrimenti la Grecia sarebbe – e da tempo - molto ricca (la battuta è di Krugman). La spesa pubblica in deficit funziona sotto certe condizioni. Per sapere quali, chiediamo lumi a due economisti keynesiani (De Long e Summers, Fiscal Policy in a Depressed Economy, marzo 2012, pagina 9). Secondo loro, l'espansione dell'economia (purché sia depressa, ossia con una sotto occupazione degli impianti e della manodopera) attraverso un maggior deficit pubblico senza per questo avere un aumento del debito pubblico (in percentuale del PIL) è possibile. Ciò avviene se il deficit pubblico alimenta la domanda aggregata per una somma maggiore della spesa iniziale in deficit (ossia, se il moltiplicatore della spesa è significativo), a condizione che il costo del debito sia inferiore al tasso di crescita dell'economia. Si assume, infine, nel ragionamento che la politica monetaria sia fuori gioco, ossia che i tassi stiano per qualche tempo intorno allo zero.
In Italia il costo del debito è pari - sulla media delle scadenze delle obbligazioni dai tre mesi ai trenta anni - al 4% circa. Poniamo che resti invariato a fronte della ripresa della spesa pubblica in deficit. La crescita economica (reale e nominale) che riduca il peso (percentuale) del debito pubblico che si dovrebbe avere deve perciò essere superiore al 4%. La crescita economica si compone di un tasso di inflazione (precisamente il deflatore del PIL) che è pari al 2% (il valore corrente) e di una crescita reale che deve essere pari al 3% (la crescita negli ultimi anni è stata pari alla metà). Il 5% è perciò un numero molto alto per l'Italia. Negli Stati Uniti, invece, il costo del debito è decisamente inferiore al nostro, e una crescita elevata di un'economia così elastica è sempre possibile, ragion per cui De Long e Summers sostengono che negli Stati Uniti si può avere una spesa pubblica in maggior deficit senza un aumento (in percentuale del PIL) del debito.
Non abbiamo delle teorie definitivamente convincenti come guida per l'azione. Nel caso del Fiscal Compact sono troppe le assunzioni per il ritorno della fiducia. Nel caso del Compact Growth i numeri non “girano” facilmente. Si può perciò argomentare – se si è avversi al rischio - che potrebbe essere saggio continuare a perseguire il non convincente Fiscal Compact, perché così ci si rende immuni da un mutamento del sentimento dei mercati finanziari.
5- La crisi come levatrice del mutamento
Fa parte di quello che gli inglesi chiamano “common sense” l'affermare che lo sviluppo economico – o, se si preferisce, la schumpeteriana “distruzione creatrice” - sia tanto maggiore quanto minori sono i vincoli sia nel mercato dei prodotti sia in quello del lavoro. Se non vi sono vincoli, allora le innovazioni si diffondono più facilmente, perché si hanno meno ostacoli nella diffusione dei prodotti, che, a loro volta, possono materializzarsi solo se la forza lavoro si sposta - senza troppe frizioni - dai vecchi ai nuovi settori. (Per una definizione della regolamentazione dei mercati dei prodotti e della tutela dell'occupazione si veda il grafico III.7).
Bene, misuriamo questa affermazione – il primo blocco di grafici è il III.5. Il grafico a sinistra mostra sull'asse orizzontale il grado di regolamentazione dei prodotti – man mano che ci si sposta a destra la regolamentazione diventa più stringente - e su quello verticale la produttività del lavoro dei diversi Paesi. Il grafico al centro - mostra sempre sull'asse orizzontale il grado di regolamentazione dei prodotti e su quello verticale il tasso di occupazione dei diversi Paesi. Ne deriva una retta di regressione che si muove dall'alto a sinistra verso il basso a destra, ossia si evince che tanto più il mercato dei prodotti è regolamentato tanto minore è la produttività e l'occupazione. Il terzo grafico collega la regolamentazione del mercato del lavoro (e non dei prodotti) al tasso di occupazione. Anche qui si evince che il tasso di occupazione è tanto maggiore tanto minore è la regolamentazione del mercato del lavoro.
Abbiano visto che le affermazioni di “common sense” sono molto vicine alla realtà, almeno nel breve termine. Allora perché il “common sense” non è attuato, perché non è reso reale?
Osserviamo il secondo blocco di grafici, il III.8. I Paesi che hanno subito meno la pressione dei mercati finanziari – il grafico a sinistra - sono quelli che hanno reagito meno alle raccomandazioni di riforma (queste ultime sono approssimate dai suggerimenti “Going for Growth” dell'Ocse). L'asse orizzontale misura il rendimento puntuale dei titoli di stato prima e dopo la crisi. Se questo è sceso – e dunque si è a sinistra rispetto all'asse dello zero – allora le raccomandazioni non sono state seguite e viceversa. Il grafico a destra mostra come le raccomandazioni siano seguite quanto maggiore è la recessione. Le riforme si fanno solo se le cose vanno davvero male, il costo del debito pubblico che aumenta e la crisi che morde, altrimenti si preferisce lasciare il mondo tale e quale, sperando che col tempo tutto si aggiusti. Il che ci porta alla domanda: è la Crisi e la Levatrice del Mutamento? Se la risposta è sì, allora il momento migliore per fare le riforme in Italia lo abbiamo avuto alla fine del 2011 inizi del 2012, quando la pressione dei mercati era massima.
6- Il nucleo neo-democristiano
Il 2 ottobre 2013 il capogruppo al Senato del PdL, Renato Schifani, invece di intervenire sulla dichiarazione di voto, ha lasciato la parola a Silvio Berlusconi, che, a sorpresa, ha dichiarato che il PdL avrebbe votato a favore del Governo. In effetti, il PdL era spaccato in tre: i governativi, gli astenuti e i falchi. Per questa ragione, se Berlusconi avesse dichiarato che il PdL avrebbe votato contro, si sarebbe trovato con solo una parte dei suoi senatori.
E ne ha preso atto, preferendo una clamorosa retromarcia. Si ha così una maggioranza di governo composta dal PD, da Scelta Civica, dagli ex-berlusconiani, e una “maggior-maggioranza” con dentro i berlusconiani. Questi ultimi sono nella maggioranza per non finire isolati, ma non sono più necessari.
La vicenda è clamorosa: 1) Si ha una maggioranza a guida neo-democristiana (Enrico Letta, Angelino Alfano) che ha il voto post comunista (ma nel PD vi sono dei post democristiani come Matteo Renzi) e delle correnti neo-democristiane (gli ex-berlusconiani); 2) Il PdL non è più solo un partito patrimoniale guidato senza contrappesi dal fondatore, perché ora esprime una qualche dialettica interna. Si ha una convergenza “moderata”, che riduce il peso delle “estreme” – il radicalismo vecchia maniera del PdL e le tentazioni “di sinistra” del PD.
Il programma esposto da Letta quando ha chiesto la fiducia è chiaro: 1) il quadro politico ed economico per combattere la crisi è quello europeo; 2) vanno fatte le riforme per il rilancio – giustizia, fiscalità, liberalizzazioni, privatizzazioni. Insomma, quanto già messo in moto da Monti nella seconda parte del suo governo: “Cresci Italia”, dopo “Salva Italia”. Un programma in linea con quello Partito Popolare Europeo.
7- Excursus sui mercati finanziari
Le attività finanziarie sono le azioni (= la variazione media annua composta del loro prezzo più il reinvestimento dei dividendi al netto dell'inflazione), e le obbligazioni a lungo e a breve termine (= la variazione media annua composta del loro prezzo più il reinvestimento delle cedole al netto dell'inflazione). I mercati finanziari possiamo suddividerli fra: 1) quelli dei Paesi che hanno perso (oppure "non vinto" per seguire un'espressione oggi di moda) le guerre – come la Germania, l'Austria, il Giappone, la Francia, l'Italia; 2) quelli dei Paesi che hanno vinto tutte le guerre – gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e i Dominions insieme a quelli del Resto del Mondo.
Facendo l'esercizio che cosa scopriamo? Il primo gruppo - su oltre un secolo - ha offerto dei rendimenti pessimi sul fronte dei debito pubblico, e modesti sul fronte delle azioni. I Paesi che hanno perso le guerre hanno avuto un'inflazione gigantesca dopo la fine dei due conflitti, e, in alcuni casi, sono stati occupati militarmente. Come si vede dalla prima tabella, il Paese messo peggio è l'Austria che ha perduto l'impero dopo la Prima guerra ed è stata occupata dopo la Seconda. L'Italia – ma solo nella competizione dei “mal messi” - sfigura come rendimento delle azioni, ma non troppo su quello delle obbligazioni. Il secondo gruppo è, invece, andato decisamente molto meglio dei Paesi “mal messi” dell'Europa.
1900-2012 | Azioni | Obbligazioni LT | Obbligazioni BT |
Austria | 0,6 | -4 | -8,2 |
Italia | 1,8 | -1,6 | -3,6 |
Germania | 3,1 | -1,7 | -2,4 |
Giappone | 3,8 | -1 | -1,9 |
Francia | 3 | 0 | -1,8 |
Mondo | 5 | 1,8 | 0,9 |
Dopo la Seconda guerra, come mostra la seconda tabella, che parte dalla fine della ricostruzione, quindi dagli anni Sessanta, le cose sono nettamente migliorate per i Paesi "mal messi", ma non per l'Italia che arriva ultima. Insomma, l'Italia non è stato un Paese che ha abbia mai dato – almeno per dei periodi lunghi - "soddisfazione" agli investitori.
1963-2012 | Azioni | Obbligazioni LT | Obbligazioni BT |
Austria | 2,6 | 4,5 | 2 |
Italia | -0,1 | 2,3 | -0,3 |
Germania | 4,8 | 4,3 | 1,7 |
Giappone | 3,3 | 4,3 | 0,4 |
Francia | 4 | 5,4 | 0,6 |
Mondo | 5,3 | 4,3 | 1 |
Risentendo delle due Guerre (perse o "non vinte") i Paesi "mal messi" sono in fondo alla classifica che mostra i risultati di oltre un secolo. Nel Secondo Dopoguerra il loro miglioramento però è netto, ad esclusione dell'Italia. Resta da capire perché. La spiegazione migliore che conosco (Michele Salvati, Dal miracolo economico alla moneta unica europea, in Storia d'Italia, volume VI, Laterza, 1999) cerca l'origine del nostro malandamento nel meccanismo di spesa pubblica in deficit per finanziare velocemente la nascita dello "Stato Sociale" negli anni Settanta e Ottanta, combinata, nello stesso periodo, con una crescita salariale superiore alla crescita della produttività .
Dagli anni Sessanta e, parzialmente, fino agli anni Ottanta, si poteva ampliare lo “Stato Sociale”, anche in assenza di un gettito che coprisse le maggiori spese. Poi non più, perchè il debito stava crescendo troppo. A quel punto, il debito pubblico doveva andare sotto controllo, cosa che è avvenuta con i primi anni Novanta. Da allora, il debito pubblico italiano è cresciuto solo per la parte relativa al pagamento degli interessi, quando questa era, come è stata, seppur non di molto, maggiore del surplus primario. In un primo periodo, quello fino agli anni Ottanta inoltrati, abbiamo avuto dei rendimenti negativi (tenendo conto dell'inflazione) dei titoli del Tesoro, nel secondo dei rendimenti positivi. Provo a elaborare il meccanismo del debito e dell'inflazione, della correzione dei conti, e degli effetti della dinamica salariale.
All'origine del debito e dell'inflazione degli anni Settanta e Ottanta. a) la spesa pubblica maggiore delle entrate produce un deficit, che può essere finanziato da una combinazione di emissione di obbligazioni e di moneta; b) soprattutto negli anni Settanta, le obbligazioni, se non sottoscritte dai privati, erano acquistate dalla Banca d'Italia; c) in questo modo, la moneta che entrava nel sistema cresceva, e, alla lunga, produceva inflazione; d) l'inflazione non era anticipata da un mercato finanziario primitivo e, di conseguenza, i rendimenti del debito pubblico erano negativi, ossia il rendimento delle obbligazioni emesse dal Tesoro era inferiore al tasso d'inflazione; e) poiché le entrate dello stato crescono in proporzione alla crescita del reddito nazionale nominale, lo stato aveva delle entrate fiscali crescenti (seppur inferiori alla crescita delle spese), mentre pagava il debito pubblico (le cedole e i titoli in scadenza) in moneta corrente, il cui valore era inferiore a quello in essere quando le obbligazioni erano state sottoscritte; f) in questo modo il debito pubblico pesava relativamente poco sul bilancio dello Stato e perciò la spesa appariva meno onerosa. Dagli inizi degli anni Ottanta, questo meccanismo di un debito pubblico con costo occultato è bloccato dalla decisione - detta del “divorzio” - fra la Banca Centrale e il Tesoro, ossia la Banca d'Italia non poteva più comprare il debito non optato dai privati. Venendo meno la domanda della Banca d'Italia, il debito, per essere sottoscritto dai solo privati, doveva offrire un maggior rendimento, che cominciò a diventare maggiore del tasso di inflazione. In questo modo, il debito pubblico aveva un costo finanziario e politico esplicito, e dunque non poteva più essere la variabile che “accontentava tutti”, vale a dire sia i fruitori della spesa, sia chi frenava sul versante del pagamento delle imposte.
La correzione dei conti dagli anni Novanta. a) se il bilancio dello stato è in avanzo (le entrate sono maggiori delle spese) ecco che si ha un surplus (detto “primario”). Se questo surplus è pari al pagamento degli interessi, non è più necessario emettere altre obbligazioni per pagare gli interessi. E dunque si ha il pareggio di bilancio. b) in questo modo, non si emettono più obbligazioni, e il debito pubblico è invariato. Man mano che l'economia cresce, sempre che si mantenga un “surplus primario” adeguato, il debito pubblico finisce per pesare sempre meno sul bilancio dello stato e dunque sul conflitto politico legato alla combinazione delle entrate e delle spese. c) un rapporto debito / PIL decrescente riduce il rischio che un rialzo dei rendimenti possa creare una crisi.
Gli effetti della dinamica salariale. a) se i salari crescono più del prodotto per addetto, ecco che o i prezzi debbono salire, rendendo le merci più costose e quindi meno competitive rispetto a quelle prodotte con salari che crescono come la produttività o meno della produttività. b) I salari in linea o sotto la produttività aumentano il margine di profitto lordo, e dunque la possibilità di ridurre i prezzi, oppure aumentare la qualità a parità di prezzo, e in ogni modo consentono di accrescere l'autofinanziamento d'impresa.
A un certo punto è presa la decisione di entrare nell'euro, con ciò intendendo che il debito pubblico sarebbe dovuto andare sotto controllo, e il meccanismo dell'aggiustamento dei conti ( e del consenso) attraverso le svalutazioni reso impossibile. Questa è stata la “grande decisione” presa negli anni Novanta.
In breve. I salari crescevano più della produttività. Ad un certo punto le merci italiane diventavano meno competitive, e dunque o si fermava la crescita salariale, o si investiva in tecnologie superiori, che avrebbero “protetto” la crescita del costo del lavoro. La svalutazione della lira diventava la più semplice delle soluzioni, perché le merci italiane tornavano temporaneamente appetibili, mentre non si toccava la dinamica salariale, ossia si lasciavano intatte le “relazioni industriali”. Questo percorso non richiedeva – almeno nel breve termine – che la tecnologia salisse di livello - una cosa peraltro regolarmente non avvenuta, neppure nel periodo più lungo.
Il “canto del cigno” del modello italiano si è avuto nei primi anni novanta: in seguito alla forte svalutazione che si era avuta con Amato I (1992), l'economia era ripartita, e, con l'arrivo di Ciampi (1993), si raccolsero i frutti. Frutti che continuarono – in misura meno marcata – con Berlusconi I (1994), Dini (1995), e Prodi I (1996). Dal 2000 l'economia italiana cresce meno della media dei Paesi che crescono meno (quelli sviluppati). L'economia italiana dal 2000 cresce meno, ma, nonostante questo, si è avuta la grande occasione di ridurre il debito pubblico. Come è mai possibile? L'Italia ha visto dimezzare, grazie all'euro, il costo del debito. Nel 1996, quando è iniziata la convergenza nell'euro, il rendimento del BTP era intorno al 9%. Anni dopo – nel 2010 - è arrivato al 4%. Oggi è intorno al 4,5%. Insomma abbiamo avuto un dimezzamento del costo del debito. Facendo i conti, si è avuto un risparmio da interessi cumulato di oltre 500 miliardi. Se questo dimezzamento del costo del debito fosse avvenuto a parità di spese pubbliche, oggi avremmo un debito inferiore di 500 miliardi.
Era la grande occasione – pur senza crescita - per assorbire il debito che si era formato negli anni Settanta e Ottanta, ai tempi della costruzione – che possiamo definire accelerata - dello Stato Sociale, ma così - purtroppo - non è andata. L'euro però ha funzionato, nel senso che ha portato alla convergenza dei rendimenti delle obbligazioni e dell'inflazione, con i Paesi che ne potevano trarre il maggior vantaggio erano quelli “mal messi”, fra cui il nostro.
L’idea di un attacco al debito italiano con vendite innescate dalle banche tedesche su indicazione della Bundesbank è sostanzialmente vera ma non è, come alcuni credono, un “complotto”, perché è stata innescata da dei fenomeni che si erano formati nel corso degli ultimi anni e che si sono scaricati improvvisamente ma non inspiegabilmente.
La crescita dei debiti pubblici dell’area euro ha messo in competizione gli emittenti e quindi ha obbligato i grandi detentori di debito pubblico (banche e istituzioni) a ridurre il peso sul debito pubblico italiano. Se si ragiona in termini di investitori passivi, coloro che replicano nei loro portafogli il peso del debito in circolazione, significa che, fatto 100 il portafoglio, se il debito tedesco e francese aumenta di peso rispetto a quello italiano ciò comporta una riduzione forzata (e quindi la vendita) della parte di debito italiana diventata eccessiva, a prescindere dalla sua appetibilità.
I vincoli regolatori svolgono anche loro una parte rilevante nella dinamica dell’estate 2011. Standard & Poor's declassa l’Italia a settembre ma già prima di allora avviene lo scarico dei titoli italiani, in parte anticipando l’abbassamento del rafting. Il passaggio da A+ ad A- accelera il fenomeno per la necessità di rispettare un livello medio di rating sulla base di criteri interni ed esterni che vincolano i portafogli in termini di rischiosità media. Ad aggravare la situazione per le banche tedesche, e non solo, è la presenza di una quota elevata di titoli tossici con rating molto basso che non hanno mercato. Per mantenere il rischio invariato vengono venduti i titoli con rating intermedio, come l’Italia, e acquistati titoli con rating molto elevato, come la Germania.
E la borsa? Si sono avute quattro cadute maggiori dopo la Seconda Guerra. I numeri riportati (quelli delle prime tre righe sono tratti da R.J. Shiller, Irrational Exuberance, Princeton, tavola 7.4) sono al netto dell’inflazione, ma non includono i dividendi, i costi di gestione e transazione e le imposte. La caduta degli anni Sessanta è stata notevole, come quella degli anni Settanta, che in un sotto periodo è stata anche peggiore. Poi si sono avuti venticinque anni di (relativa) tranquillità – circa dal 1985 al 2007 – e siamo arrivati all’ultima crisi. Negli anni Sessanta e Settanta abbiamo avuto una causa scatenante di natura interna (le nazionalizzazioni, l’inflazione, i sommovimenti sociali).
| Caduta cumulata nei cinque anni | Ripresa cumulata nei successivi cinque |
1960-1965 | -62,3 | -0,5 |
1970-1975 | -62,6 | -46,1 |
1973-1978 | -80,7 | 72,6 |
2007-2013 | Oltre il 50% | ? |
Ultimamente queste cause scatenanti non ci sono. Allora perché la borsa italiana va peggio delle altre, forse perché nelle fasi di crisi si vendono i titoli della “periferia dell’impero”, perché la sua economia va peggio, e via elencando. No, si ha una spiegazione molto semplice, anzi banale.
Dal 2003 al 2007 la borsa italiana andava meglio di molte altre. Come mai? Si immagini una borsa composta in buona misura da due settori, quello bancario e quello elettrico/energetico. Si supponga che questi due settori distribuiscano dei dividendi molto alti. Che cosa succede a questa borsa quando un ciclo finanziario spinge i rendimenti delle obbligazioni all’ingiù, mentre le economie crescono, com’è accaduto fino al 2007?
Quando i rendimenti delle obbligazioni scendono dal 9% al 4%, questa borsa è comprata. Abbiamo visto che distribuisce dei dividendi alti, poniamo intorno al 4%. Il rendimento delle obbligazioni, scendendo, diventa eguale al rendimento delle azioni. A quel punto sono preferite le azioni, perché, a parità di rendimento fra azioni ed obbligazioni, i dividendi possono crescere nel tempo, mentre le cedole restano fisse. Se poi, uno dei due settori, quello bancario, attraversa un periodo di ristrutturazioni, banche che comprano altre banche, e che crescono all’estero, allora il mercato ha un motivo in più per volere le sue azioni. Le fusioni stabilizzano la concorrenza e tagliano i costi, accrescendo i profitti ed, alla fine, i dividendi.
Questo è stato il modello della borsa italiana fino allo scoppio della crisi finanziaria. Il ciclo è quello “virtuoso”. Per farlo diventare “vizioso” basta farlo girare al contrario. Le banche sono state messe in difficoltà, si temono perdite, il dividendo viene tagliato. Viene, intanto, meno il movente del dividendo e, in ogni modo, le banche vanno male, come quelle degli altri paesi, ma in Italia pesano di più sul listino.
8- Conclusioni
Posto – come è ragionevole – che alla fine il debito italiano – che è liquido e gigantesco - sia tutto rimborsato, si ha per l'industria finanziaria una grande opportunità. Lo si può buttar giù, come tirar su, insomma più lo si butta giù, posto che sia rimborsato, più, in un momento successivo, lo si tira su. Proprio come la pubblicità del caffè. In alcuni periodi, esso può essere buttato giù – ci si fa prestare i titoli del Tesoro, li si vende, contando che, per effetto del volume di vendite, finiscano per avere un prezzo inferiore, ed ecco che li si compra, e li si rende al prestatore (posizioni corte o scoperte). In altri periodi può essere tirato su – si compra il debito italiano perché al rendimento cedolare si somma la crescita del prezzo (posizioni lunghe). Le fasi dipendono dalla combinazione delle spinte inerziali e della credibilità politica. Immaginate un'assicurazione tedesca, che ha degli impegni definiti verso i propri clienti. Preferirebbe, potendo, il Bund, che rende il 1,5%, o il BTP che rende il 4,5%? Dopo dieci anni la differenza del 3% è pari al 30%, senza calcolare l'effetto dell'interesse composto (che si ha investendo le cedole che si incassano). In molti correrebbero in nostro soccorso, se solo ci dessimo “la mossa”.
Sul fronte della capacità competitiva possiamo dire che non abbiamo legato la crescita dei salari a quella della produttività. Il ritorno alla Lira, che per alcuni potrebbe essere un “toccasana”, avrebbe, invece, degli effetti devastanti.
Insomma, austerità di bilancio e dinamica salariale floscia, altro non sembra esserci. Un programma di governo che non è molto attraente, anzi, a ben guardare, quasi “invendibile”. Anche perché sembra una perdita di Sovranità. E in un certo senso lo è, ma lo è perché abbiamo mancato le occasioni che ci sono state date. Altrimenti detto, è un programma che non può che essere scelto. Possiamo anche chiamarlo - in modo colorito - il “punto di vista di Berlino”.
Insomma, la politica economica, che è un sottoinsieme della politica, si fa Politica. Nulla è ancora perduto, se si accetta la fine delle “aspettative facili”. Siamo ancora “nella coda lunga” delle spinte e contro spinte che si erano formate negli anni Sessanta, quando iniziò la modernizzazione democratica (prima, col Fascismo, si era avuta la modernizzazione autoritaria). Sono passati cinquanta anni, possiamo finalmente avere uno Stato Sociale riqualificato (equo ed efficiente) insieme a un'industria competitiva. O no?
Fonti:
(§2= http://www.linkiesta.it/debito-pubblico-italiano
(§7),(§8) http://temi.repubblica.it/limes/litalia-di-nessuno/4603
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