La combinazione di quattro vicende porta in Europa alla flessione dei mercati azionari – soprattutto del settore bancario – e alla divaricazione di quelli obbligazionari: sale oltremodo il prezzo delle obbligazioni dei paesi «virtuosi», mentre scende quello dei paesi «viziosi». L’euro contro il dollaro è sceso da 1,45 circa a 1,4 circa, ma lo scorso anno ai tempi della prima crisi greca era sceso fino a 1,2 dollari circa per euro. Dunque l’euro sta tenendo.

Si combinano queste vicende: 1) il rallentamento della crescita economica in Europa e negli Stati Uniti; 2) la discussione sulle banche europee, che secondo il Fondo Monetario debbono essere ricapitalizzate, intanto che negli Stati Uniti sono accusate – e dunque rischiano multe salate – di avere mal consigliato sugli acquisti di mutui ipotecari; 3) la rottura delle trattative sul rifinanziamento della Grecia, accusata dal Fondo Monetario di «non fare abbastanza» per portare sotto controllo il debito pubblico; 4) la Cdu – il partito di Angela Merkel che dovrebbe appoggiare la soluzione europea della crisi del debito dei paesi periferici – che perde un’altra tornata di elezioni regionali.

La forte divaricazione fra le obbligazioni non implica che quelle tedesche – che a dieci anni rendono il 2% circa – siano «buone» e quelle italiane – che a dieci anni rendono il 5% circa – siano «cattive». Questi rendimenti molto divaricati scontano scenari estremi: nel caso tedesco, la paura che l’Europa dell’euro si spacchi; nel caso italiano, la paura che la manovra sia insufficiente. È possibile che le cose vadano in questo modo, ma non è certo. Esistono ancora, infatti, margini di manovra sia monetari sia fiscali. I tassi possono essere abbassati in Europa, rendendo meno oneroso il finanziamento delle banche, così come si può pensare a un gigantesco piano pubblico di investimenti in infrastrutture per rilanciare l’economia.

Le azioni bancarie sono sotto pressione. Oggi l’amministratore delegato della Deutsche Bank ha dichiarato che gli utili delle banche in futuro saranno limitati. Si suppone per i minori introiti dalle attività finanziarie e per il peso degli aumenti del capitale, che riducono l’utile per azione. Le azioni industriali, che in alcuni casi hanno prezzi molto bassi in rapporto agli utili e ai dividendi, si possono riprendere solo se si vede che ci sarà una ripresa di una qualche robustezza e non una possibile recessione.

La crisi in corso non è passeggera, e non è frutto della perfidia degli speculatori. Esiste, è vera, e solo una decisione forte sulla politica fiscale (che non può essere solo restrittiva) e monetaria (che deve diventare ancora più espansiva) potrà riportare le cose nei giusti binari. Il tempo stringe. C’è una complicazione: la finanza e l’industria sono veloci, la politica è lenta. Le prime, infatti, non devono cercare troppi consensi per agire, a differenza della seconda. Un esempio: la Fiat può decidere di produrre in Polonia e non in Italia; e dunque spingere il sistema verso una decisione veloce. Il governo, invece, non può affidare l’esercizio della magistratura ai polacchi, e dunque deve cercare il consenso.