Molti sostengono che l'ascesa dei mercati finanziari di lunedì 16 settembre dipenda dalla rinuncia di Larry Summers a candidarsi come successore di Ben Bernanke. A questo punto si ha un solo candidato, la economista Janet Yellen, che dovrebbe sostituire Bernanke il prossimo gennaio. Non entriamo nel merito delle caratteristiche di Summers (1), e dunque assumiamo che i mercati stiano “festeggiando” la possibilità che con la Yellen la politica monetaria resti per qualche tempo ancora “lasca”, o, almeno, abbastanza lasca. La tesi che sosteniamo è che i mercati continuano a voler “comprare tempo”, perché la fine della politica monetaria lasca potrebbe avere un grande impatto negativo. Le ragioni della “miopia” dei mercati – usiamo il termine “miopia”, perché il rimandare un problema non lo risolve – si spiega con lo stesso meccanismo che portò alla crisi della Lehman di cinque anni fa (2).
Che cosa accadrebbe se la politica monetaria diventasse meno lasca?
Possiamo immaginare che i tassi di interesse praticati dalla banca centrale alle banche di credito ordinario alla fine salgano. E questa non è solo una supposizione: fino a maggio i tassi a breve attesi per il 2016 negli Stati Uniti erano intorno al 0,5%, e poi sono arrivati fino al 2% (3), appena dopo che Bernanke accennò a una riduzione degli acquisti da parte della banca centrale di obbligazioni.
Possiamo anche immaginare che senza gli acquisti di obbligazioni da parte della banca centrale - acquisti che, togliendo dal mercato molti titoli, li rende più “rari”, con ciò spingendo in alto i loro prezzi e quindi in basso i loro rendimenti -, i rendimenti sui titoli del Tesoro a dieci anni – i Bond - possano salire fino al 3% nel 2013 e fino al 4% nel 2014. E questa non è solo una supposizione: i rendimenti delle obbligazioni decennali statunitensi sono da maggio quasi raddoppiati, dal 1,5% circa al 3% circa.
Immaginiamo, come è verosimile, che i tassi e i rendimenti – ossia tutto lo spettro della curva dei rendimenti – alla fine salgano. Immaginiamo del 3% - la media fra un 2% a breve termine e un 4% a lungo termine - o di 300 punti base. A questo punto si ha una flessione dei prezzi che è massima per le obbligazioni a lungo termine (come i Bond, e i BTP) e minima per gli strumenti monetari (come i Bills, e i BOT). Tanto maggiore è la quota di obbligazioni a lungo termine, tanto la maggiore la perdita in conto capitale – infatti se i rendimenti offerti alle aste sono maggiori, i prezzi delle obbligazioni emesse devono scendere per equiparare i rendimenti.
Secondo i calcoli della Banca dei Regolamenti Internazionali – la banca centrale delle banche centrali – si avrebbero delle perdite notevoli. Nel caso del Giappone, che ha un debito pubblico sbilanciato sul lungo termine, con un debito che è pari al 200% del PIL – si avrebbe una perdita in conto capitale sullo stock di obbligazioni pari al 40% del PIL. La perdita è “figurata”, ossia si ha con i prezzi correnti registrati come tali a bilancio, perché alla scadenza le obbligazioni sono rimborsate alla pari. Si veda il grafico I.3 a pagina 9 (4). Per l'Italia la stima è pari al 20% del PIL.
L'altra faccia della medaglia del rialzo di tutta la curva dei rendimenti è il maggior costo del debito per i Tesori, che, quando rinnovano e/o emettono nuovo debito, lo debbono pagare ben più. Ossia, a parità di entrate tributarie e uscite, si ha un maggior deficit. Se il debito è pari al 100% del PIL – come è ormai ovunque, tranne in Giappone – ecco che il debito costa il 3% in più del PIL. Insomma, il rialzo dei tassi e dei rendimenti mette in difficoltà la politica fiscale.
Le politiche monetarie ultra lasche hanno: 1) schiacciato i tassi degli strumenti monetari – ci si indebita con la banca centrale fino a quando gli strumenti monetari rendono quanto il tasso di sconto -, 2) spinto in alto i prezzi delle obbligazioni – queste sono acquistate dalla banca centrale e quindi tolte in parte dal mercato, e, infine, 3) schiacciato il costo del debito pubblico e dunque il costo politico delle politiche fiscali.
La “resa dei conti” prima o poi arriva, ma, se viene anche solo allontanata nel tempo, i mercati “festeggiano”. Quel che sta accadendo ricorda il meccanismo della crisi di cinque anni fa, che riportiamo.
Nel 2006 nell'industria finanziaria tutti erano estasiati per quanto le cose stavano “andando bene”. Le borse continuavano a salire. I rendimenti sul debito pubblico erano stabili. Insomma, tutto sembrava procedere, all’orizzonte si potevano anche intravvedere delle nubi, ma queste non avevano la conformazione della tempesta. La crisi è, invece, arrivata e improvvisamente nella primavera estate del 2007, ma allora ai più non sembrava molto grave. Infatti, ancora nell’autunno del 2007, le borse erano giunte ai massimi storici. Da allora fino alla primavera del 2009 si è avuta solo una caduta. Prestigiose banche d’affari in fallimento, fra cui la Lehman, salvataggi privati e pubblici, e via dicendo.
I lungimiranti – dopo lo scoppio della crisi si è naturalmente scoperto che erano la maggioranza – avrebbero anche potuto scommettere contro “le magnifiche sorti e progressive” dei mercati finanziari, ossia, se fossero stati coerenti, avrebbero potuto farsi prestare i titoli e venderli. Poi avrebbero ricomprato i titoli ad un prezzo inferiore, lucrando la differenza. Se in molti fossero andati – come si dice in gergo - “scoperti”, ecco i prezzi non sarebbero saliti tanto, e dunque la crisi non sarebbe stata altrettanto grave. Dunque “i lungimiranti” non hanno agito, lasciando il mercato nelle mani degli “entusiasti”. Incoerenti o impossibilitati ad agire? Scommettere contro i mercati stabilmente in salita è molto pericoloso. Se uno vende un titolo preso a prestito che vale 10 e questo va a zero, ha guadagnato 10. Se uno vende un titolo preso a prestito a 10 e questo va a 100, ha perso 90. Se per qualche tempo la strategia non funziona e si manifestano delle grosse perdite. Il gestore, che - lungimirante - ha scommesso contro i mercati, vede il patrimonio affidatogli ridursi per effetto dei riscatti della clientela. E’ quindi molto più facile che con un mercato stabilmente in ascesa quasi tutti decidano di guadagnare “andando lunghi”, ossia comprando i titoli per tenerli. Finisce così che non si crea un’opposizione nel parlamento dei prezzi in salita. Si crea piuttosto un sistema a partito unico in cui tutti fanno le stesse cose, anche quelli che “non ci credono”. Se tutti credono alle stesse cose, allora i prezzi salgono, e dunque si lucrano senza rischi dei bonus cospicui. Conveniva dunque non essere originali.
Si potrebbe obiettare che si doveva – anche nella razionalità del conformismo - tenere conto del rischio. E qui abbiamo una seconda spiegazione – dopo quella che nessuno osava scommettere contro i mercati in ascesa - del perché la crisi ha preso tutti alla sprovvista. I sistemi di controllo del rischio non hanno tenuto conto degli eventi a bassa probabilità, ma capaci di effetti devastanti. Un esempio di evento a bassa probabilità, ma capace di effetti devastanti è l’attacco alle Torri Gemelle. Dopo un periodo di prolungata stabilità, come quello durato dal 2002 al 2006, si era finito con il pensare che ormai ci fosse una riduzione permanente del rischio. Si pensava in questo modo, anche perché così si potevano prendere, credendo che fosse “scientifico”, dei rischi maggiori, contando sul realismo delle distribuzioni di probabilità con “code sottili”, quelle dove la probabilità che accada qualche cosa di grave è molto remota.
Tutto questo – il conformismo unito all’ingenuità nel controllo del rischio - non basta a spiegare la crisi. Si deve anche capire perché le obbligazioni – soprattutto quelle con “in pancia” i mutui ipotecari - abbiano combinato un tale disastro.
Non si possono studiare i bilanci degli emittenti titoli in modo serio ed omogeneo, senza incorrere in spese immense. Conviene che qualcuno li studi, e che ne studi molti per diversificare i portafogli. L’investitore poi ha bisogno di un voto che dia intelligenza del rischio. Questa è la logica delle agenzie di rating. Ma queste ultime di che cosa vivono? Non potendo non diffondere i risultati delle analisi, le obbligazioni, infatti, sono comprate solo se hanno un voto, finisce che nessuno le paga. Oppure, se qualcuno le paga, si spia nelle pieghe dei bilanci altrui che cosa è stato comprato. L’informazione di chi produce rating non riesce a farsi pagare, a meno che non la paghi l’emittente titoli, che così crea il mercato per la propria offerta. L’emittente titoli pagherà volentieri la società di rating che lo giudica ottimo, piuttosto che quella che lo giudica medio. Si forma un’asta inefficiente, perché alla fine è premiato chi dispensa i risultati più generosi. Come le università larghe nei voti, che trovano sempre degli studenti disposti a sapere meno in cambio di uno sforzo minore. La gran parte delle emissioni di obbligazioni aveva “i voti molto alti”, e questo bastava perché finissero nei portafogli degli investitori. Per chiudere con l’esempio, le imprese alla fine hanno assunto gli studenti meno preparati, credendo che fossero dei “fulmini”, perché a loro bastava guardare distrattamente il voto di laurea.
Tirando le somme: 1) l'ottimismo è più facile da gestire del pessimismo (la sindrome di Rossella O'Hara); 2) si tende a dimenticare che il rischio è nelle pieghe delle cose (si dimentica la “coda del diavolo”); 3) infine, si pensa che, se tutti pensano che una cosa sia vera, allora è vera (la “saggezza della folla”).
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http://www.ft.com/intl/cms/s/0/112150fc-15a9-11e3-950a-00144feabdc0.html#axzz2f09MJOHT
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http://www.centroeinaudi.it/indici-di-liberta-economica/book/8-libri/1254.html
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